Come ogni volta. Quando era giù di
morale, le cose non quagliavano, insomma non c’era che da aspettare che
cambiasse il vento, ricorreva all’album delle foto. Un album delle foto
all’antica con la copertina di finta pelle, le pagine cartonate, alto come una Bibbia
di quelle vetuste, che si vedono nei film sui colonizzatori americani: le
cosiddette bibbie di famiglia, mai lette per intero ma con l’albero genealogico
in calce aggiornato via via nel corso dalle generazioni.
Il suo album no, era un semplice
vecchio album di foto in cui la madre aveva raccolto le immagini della sua
vita, cominciando dalla prima, a poche ore dalla nascita con il volto
rossastro. Ma già il rossastro più che vedersi s’intuiva, dato che le foto
erano in bianco e nero, e tali sarebbero rimaste per molte pagine successive,
sino a quelle del matrimonio, una trentina d’anni più tardi. Sfogliare quelle
vecchie foto gli faceva bene, almeno di solito era così, era come riannodare i
fili slabbrati della sua esistenza, cercarvi un senso, una direzione. Lui
appena nato fra le braccia di mamma, e poi un anno o due più tardi
completamente nudo, culetto al vento, disteso su una pelle di leopardo o di
leone, o di scimmia. Lui fra zii e parenti vari il giorno della cresima, con un
nastro bianco a cingergli la fronte. Poi da scolaretto con il grembiulino nero,
la cravatta a fiocco e una voluminosa cartella di finto cuoio sotto il braccio.
E poi. Qui si arrestò. Dalla pagina
era scivolata una foto non inserita nell’apposito risguardo: un gruppo di
ragazzetti, forse quindicenni o sedicenni. Difficile capire l’anno e l’età
esatta. Calzoni alla zuava, camicia aperta sul collo e ciuffo ribelle. Li
riconosceva tutti, i compagni di scuola alle Commerciali.
Ma dietro al gruppo, spuntava un
signore che lì per lì non ricordava di aver mai conosciuto: alto, con tutta la
testa oltre le teste dei ragazzi, capelli ben pettinati divisi a metà da una
scriminatura tanto perfetta da sembrare tirata col righello, un paio di
baffetti come quelli di Clark Gable in “Via col vento”, ma una espressione ben
diversa da quella del divo hollywoodiano: tutt’altro che sorridente e beffarda,
anzi più che seria, severa, aggrondata, quasi truce. Chi era quel tipo? Un
professore? Un bidello in alta uniforme? Un genitore? Non riusciva a riconoscerlo,
a identificarlo, anzi quell’intrusione gli sembrava una nota stonata in
quell’allegro consesso giovanile. Eppure l’intruso doveva averci qualcosa che
riguardava proprio lui. A guardar la foto con maggior attenzione si accorgeva
che quel figuro sconosciuto aveva insinuato una mano fra il malloppo compatto
dei ragazzi per appoggiarla proprio sulla sua spalla. E dunque?
Chiuse l’album con un senso di
fastidio, quasi con dispetto: stavolta la funzione rasserenatrice non aveva
funzionato.
Doveva pensarci su. Una notte di
sonni inquieti ma al mattino, come spesso accade, i ricordi si erano sbrogliati
e la soluzione gli si presentava nitida: suo zio Gustavo! Non proprio uno zio,
una specie di prozio remoto, un parente un po’ alla lontana, che un bel giorno
aveva preso congedo dalla famiglia per emigrare in America: Argentina? Brasile?
Stati Uniti? A quel tempo l’America era l’America, senza tante distinzioni
territoriali. Si va in America a far fortuna. L’aveva poi fatta la fortuna? Era
rimasto là e, dopo la necessaria gavetta, era diventato padrone di una fazenda
in Brasile o di una succursale di automobili a Detroit? Perché non ne aveva
saputo più niente? E sì che da allora erano passati almeno trent’anni e quella
mano poggiata sulla sua spalla stava a significare che lo zio Gustavo a quel
nipote italiano ci teneva.
Un vecchio contadino che aveva
conosciuto da ragazzo gli aveva raccontato la propria avventura d’emigrante. In
America - diceva – è tutto speciale che neanche te lo immagini. Pensa che c’è una
grande macchina per fare a meno dei norcini: da una parte entra un maiale
appena ucciso e dall’altro, qualche metro più in là, escono prosciutti, salami
e salsicce. A lui però lo avevano rispedito in Italia, e povero come quando era
arrivato.
E lo zio Gustavo? Si era
naturalizzato cittadino americano, o brasiliano, o argentino, oppure era
tornato sconfitto anche lui: solo i soldi per pagarsi il biglietto sino a casa?
Perché non ne aveva saputo più nulla e nessuno si era premurato d’informarlo
sulla sorte del congiunto? Valeva la
pena di andare a fondo, indagare presso
qualche parente prossimo o remoto. Magari Gustavo nel frattempo era morto,
ricco sfondato, e i suoi possedimenti erano in attesa di erede. Quale migliore
erede di lui, il prediletto, come quella mano poggiata sulla spalla stava a
dimostrare? Passò qualche giorno in uno stato di ebbrezza, sia pure
provvisoria. Forse gli sarebbe convenuto trasferirsi in America per
amministrare saggiamente le molte proprietà. O forse sarebbe stato meglio vendere
tutto, disfarsene, e goderseli qui in patria quei benedetti quattrini. Pesos,
pesetas, dollari… Decise d’intraprendere le ricerche presso il Consolato. Ma
quale? Americano, brasiliano, argentino? Oppure il Venezuela, Perché aveva
trascurato il Venezuela fra le sue ipotesi? E sì che di emigrati italiani ce
n’erano anche là.
Intanto si mise alla ricerca di un
parente, possibilmente in età molto avanzata, che sull’emigrante potesse
fornirgli ulteriori informazioni. Trovò un cugino di sua nonna, novantenne,
ospitato in una casa di riposo, e gli presentò la fotografia. Il vecchietto la
esplorò facendo forza alla sua doppia cateratta. Più che vederlo se lo fece
descrivere: capelli divisi a metà, baffetti alla Clark Gable. Lo interruppe:
sei sicuro che non fossero baffetti alla Menjou? Lo mise in imbarazzo. Lui non
sapeva neppure chi fosse questo Menjou. Abbozzò: sì, potrebbe essere. E il
vecchietto: Ma allora non è Gustavo, è Alfonso, quel poveraccio che ha venduto
casa e cavallo per comprarsi il biglietto. Gli avevano proposto una bella
situazione in Cile. In Cile? Sì, in Cile, c’era da mettersi nel mercato della
mescalina. La mescachè? Sì, una specie di fungo per fare le sigarette e pure le
frittate. E che gli successe? Lo misero in prigione perché il traffico non era legale. E poi? E poi non
se ne seppe più nulla. A quest’ora sarà morto, laggiù le carceri non perdonano.
Finito il sogno del parente che aveva
fatto fortuna in America. Oppure no? Alfonso o Gustavo? Baffi alla Clark Gable
o baffi alla Menjou. E se quel povero vecchietto male in arnese e con la doppia
cataratta si fosse sbagliato? Restò con il suo dubbio atroce: un giorno o
l’altro sarebbe andato a fondo della cosa. Non poteva trascurare quella fazenda
brasiliana o quell’agenzia di Detroit in attesa di proprietario…
(Leandro Castellani)
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