lunedì 2 settembre 2019

L'ALBUM DELLE FOTO


 Come ogni volta. Quando era giù di morale, le cose non quagliavano, insomma non c’era che da aspettare che cambiasse il vento, ricorreva all’album delle foto. Un album delle foto all’antica con la copertina di finta pelle, le pagine cartonate, alto come una Bibbia di quelle vetuste, che si vedono nei film sui colonizzatori americani: le cosiddette bibbie di famiglia, mai lette per intero ma con l’albero genealogico in calce aggiornato via via nel corso dalle generazioni.
Il suo album no, era un semplice vecchio album di foto in cui la madre aveva raccolto le immagini della sua vita, cominciando dalla prima, a poche ore dalla nascita con il volto rossastro. Ma già il rossastro più che vedersi s’intuiva, dato che le foto erano in bianco e nero, e tali sarebbero rimaste per molte pagine successive, sino a quelle del matrimonio, una trentina d’anni più tardi. Sfogliare quelle vecchie foto gli faceva bene, almeno di solito era così, era come riannodare i fili slabbrati della sua esistenza, cercarvi un senso, una direzione. Lui appena nato fra le braccia di mamma, e poi un anno o due più tardi completamente nudo, culetto al vento, disteso su una pelle di leopardo o di leone, o di scimmia. Lui fra zii e parenti vari il giorno della cresima, con un nastro bianco a cingergli la fronte. Poi da scolaretto con il grembiulino nero, la cravatta a fiocco e una voluminosa cartella di finto cuoio sotto il braccio.
E poi. Qui si arrestò. Dalla pagina era scivolata una foto non inserita nell’apposito risguardo: un gruppo di ragazzetti, forse quindicenni o sedicenni. Difficile capire l’anno e l’età esatta. Calzoni alla zuava, camicia aperta sul collo e ciuffo ribelle. Li riconosceva tutti, i compagni di scuola alle Commerciali.
Ma dietro al gruppo, spuntava un signore che lì per lì non ricordava di aver mai conosciuto: alto, con tutta la testa oltre le teste dei ragazzi, capelli ben pettinati divisi a metà da una scriminatura tanto perfetta da sembrare tirata col righello, un paio di baffetti come quelli di Clark Gable in “Via col vento”, ma una espressione ben diversa da quella del divo hollywoodiano: tutt’altro che sorridente e beffarda, anzi più che seria, severa, aggrondata, quasi truce. Chi era quel tipo? Un professore? Un bidello in alta uniforme? Un genitore? Non riusciva a riconoscerlo, a identificarlo, anzi quell’intrusione gli sembrava una nota stonata in quell’allegro consesso giovanile. Eppure l’intruso doveva averci qualcosa che riguardava proprio lui. A guardar la foto con maggior attenzione si accorgeva che quel figuro sconosciuto aveva insinuato una mano fra il malloppo compatto dei ragazzi per appoggiarla proprio sulla sua spalla. E dunque?
Chiuse l’album con un senso di fastidio, quasi con dispetto: stavolta la funzione rasserenatrice non aveva funzionato.
Doveva pensarci su. Una notte di sonni inquieti ma al mattino, come spesso accade, i ricordi si erano sbrogliati e la soluzione gli si presentava nitida: suo zio Gustavo! Non proprio uno zio, una specie di prozio remoto, un parente un po’ alla lontana, che un bel giorno aveva preso congedo dalla famiglia per emigrare in America: Argentina? Brasile? Stati Uniti? A quel tempo l’America era l’America, senza tante distinzioni territoriali. Si va in America a far fortuna. L’aveva poi fatta la fortuna? Era rimasto là e, dopo la necessaria gavetta, era diventato padrone di una fazenda in Brasile o di una succursale di automobili a Detroit? Perché non ne aveva saputo più niente? E sì che da allora erano passati almeno trent’anni e quella mano poggiata sulla sua spalla stava a significare che lo zio Gustavo a quel nipote italiano ci teneva. 
Un vecchio contadino che aveva conosciuto da ragazzo gli aveva raccontato la propria avventura d’emigrante. In America - diceva – è tutto speciale che neanche te lo immagini. Pensa che c’è una grande macchina per fare a meno dei norcini: da una parte entra un maiale appena ucciso e dall’altro, qualche metro più in là, escono prosciutti, salami e salsicce. A lui però lo avevano rispedito in Italia, e povero come quando era arrivato.
E lo zio Gustavo? Si era naturalizzato cittadino americano, o brasiliano, o argentino, oppure era tornato sconfitto anche lui: solo i soldi per pagarsi il biglietto sino a casa? Perché non ne aveva saputo più nulla e nessuno si era premurato d’informarlo sulla sorte del congiunto?  Valeva la pena di andare a fondo,  indagare presso qualche parente prossimo o remoto. Magari Gustavo nel frattempo era morto, ricco sfondato, e i suoi possedimenti erano in attesa di erede. Quale migliore erede di lui, il prediletto, come quella mano poggiata sulla spalla stava a dimostrare? Passò qualche giorno in uno stato di ebbrezza, sia pure provvisoria. Forse gli sarebbe convenuto trasferirsi in America per amministrare saggiamente le molte proprietà. O forse sarebbe stato meglio vendere tutto, disfarsene, e goderseli qui in patria quei benedetti quattrini. Pesos, pesetas, dollari… Decise d’intraprendere le ricerche presso il Consolato. Ma quale? Americano, brasiliano, argentino? Oppure il Venezuela, Perché aveva trascurato il Venezuela fra le sue ipotesi? E sì che di emigrati italiani ce n’erano anche là.

Intanto si mise alla ricerca di un parente, possibilmente in età molto avanzata, che sull’emigrante potesse fornirgli ulteriori informazioni. Trovò un cugino di sua nonna, novantenne, ospitato in una casa di riposo, e gli presentò la fotografia. Il vecchietto la esplorò facendo forza alla sua doppia cateratta. Più che vederlo se lo fece descrivere: capelli divisi a metà, baffetti alla Clark Gable. Lo interruppe: sei sicuro che non fossero baffetti alla Menjou? Lo mise in imbarazzo. Lui non sapeva neppure chi fosse questo Menjou. Abbozzò: sì, potrebbe essere. E il vecchietto: Ma allora non è Gustavo, è Alfonso, quel poveraccio che ha venduto casa e cavallo per comprarsi il biglietto. Gli avevano proposto una bella situazione in Cile. In Cile? Sì, in Cile, c’era da mettersi nel mercato della mescalina. La mescachè? Sì, una specie di fungo per fare le sigarette e pure le frittate. E che gli successe? Lo misero in prigione perché  il traffico non era legale. E poi? E poi non se ne seppe più nulla. A quest’ora sarà morto, laggiù le carceri non perdonano.
Finito il sogno del parente che aveva fatto fortuna in America. Oppure no? Alfonso o Gustavo? Baffi alla Clark Gable o baffi alla Menjou. E se quel povero vecchietto male in arnese e con la doppia cataratta si fosse sbagliato? Restò con il suo dubbio atroce: un giorno o l’altro sarebbe andato a fondo della cosa. Non poteva trascurare quella fazenda brasiliana o quell’agenzia di Detroit in attesa di proprietario…  
(Leandro Castellani)

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