martedì 17 settembre 2019

GLI ULTIMI


Incalzate dal vento, le nuvole solcavano il cielo veloci, prodromi di sicura tempesta. E il mare rispondeva aggrondato. Le onde si gonfiavano sollevandosi. Seguendo il ritmo dei marosi la piccola barca s’impennava e ripiombava giù, ogni volta evitando l’abisso. Come la navicella di Caronte, con il suo carico di dannati verso una riva lontana, indefinita. Verso un approdo che forse non esiste perché il vagare sulle acque tempestose deve essere eterno per i maledetti da Dio. 
Seduta a  poppa, la ragazza stringeva con forza il timone perché vento e mare non glielo strappassero via di mano. Rabbrividiva nella sua totale nudità. La pioggia le sferzava la pelle violandone il corpo, scorreva sui seni, s’insinuava fra i glutei. Nudo anche il giovane ai remi che inarcava e distendeva il dorso, a ritmo sempre più veloce, alla ricerca di un’ardua speranza di salvezza. Il remo frangeva l’acqua e, ad ogni flutto, la prua della barca si sollevava  girando a vuoto per un breve istante, in attesa di essere riafferrata dalla nuova onda montante. In un’era passata Gustave Dorè aveva creato nelle sue tavole dantesche immagini altrettanto potenti: anime ignude sballottate dal fato o dal castigo, alla deriva del mondo.
Se il mare non avesse ruggito, avrebbe regnato il silenzio. Ma la tempesta non concedeva silenzi o meglio, tramutava i silenzi in un muggito cupo, continuo. Dice una leggenda marinara che quell’urlo lugubre contiene le grida d’aiuto di tutti i naviganti che hanno trovato la morte nel mare, come un’estrema inutile invocazione di salvezza. Lo chiamano “lo sciò”.
Altri due esseri ignudi giacevano sul fondo della barca ed erano due corpi avvizziti di vecchi, la pelle grigia e cascante, le vene che affioravano disegnando azzurrine geografie. La donna emetteva un lamento smorzato, quasi un guaito, e lacrime copiose le scendevano lungo il volto a confondersi con la salsedine del mare. L’uomo taceva: uno sguardo severo, insondabile, su quelle acque in tormenta o forse sul nulla.

Gli sforzi del giovane vogatore erano riusciti a strappare la feluca alla furia delle onde. La barca approdò all’isola che era solo un ammasso di scogli, una piramide di massi gettati laggiù, in mezzo al mare, o forse un lembo emerso da poco dalle profondità dell’abisso, il brandello di un’Atlantide senza i suoi tesori.
I giovani trainarono la barca sulla breve spiaggia tra gli scogli e aiutarono i due vecchi a scendere a riva... L’invereconda nudità che i due ragazzi esibivano con grazia suonava come un’onta sui due vecchi. La donna cercò di coprirsi i seni avvizziti, rabbrividendo umiliata, e si affrettò a raggiungere lo scoglio più prossimo per accucciarvisi dietro come una belva ferita, le mani incrociate sulle spalle per difendersi dal freddo che si era fatto più intenso per quello spartiacque di roccia in mezzo al mare. Ma il vecchio aveva rifiutato rabbiosamente ogni aiuto. Si era arrampicato di pietra in pietra, sino al culmine, e di lì aveva preso a scrutare il mare, o il nulla. Le acque si erano placate, come si fossero improvvisamente arrese, ed era svanito anche il vento.
La ragazza si accostò alla vecchia:
-         Non aver paura, mamma…
Le rispose uno sguardo smarrito, carico di dolore. Una sofferenza discreta, schiva:
-         Figlia, credi che tarderà molto a salire la marea?
Fu il giovane nocchiero a risponderle, con la stesso tono smorzato di voce, come per non turbarla:
-         No, mamma. Un’ora, forse due. Fra due ore questo scoglio sarà sommerso…
La vecchia chinò il capo:
-         Non è bello morire così!
-         E’ la legge…
La madre sollevò il volto verso i figli interrogandoli senza parole, solo con quello sguardo doloroso:
-         Perché?
La ragazza alzò le spalle in un gesto d’impotenza.
-         Lo sai, mamma. Non più genitori, non più figli. Solo noi. Noi e basta.
-         E se volessero uccidere anche voi? Forse vogliono che il mondo finisca proprio oggi, subito…
I due giovani non risposero. Non volevano o non sapevano  rispondere. Erano domande più grandi di loro. Di tutto:
     - L’onda comincia a salire. Pulirà il mondo…

La vecchia si è già rassegnata. Ora non ha più freddo. Il mare si è calmato ma l’orlo della marea è già montato sino a lambire gli scogli sommergendo di nuovo i piccoli granchi. La striscia di sabbia è scomparsa.
La ragazza passa una mano leggera sul capo di sua madre. Come un pudica carezza o un pudico congedo:
-         Lo sai, mamma, se solo avessimo potuto…
-         Andate!
E’ il commiato. Arroccato sul culmine dello scoglio più alto il vecchio guarda dinanzi a sé, come impietrito:
-         E lui?
-         Lasciatelo, non saprà mai accettare…
La sagoma del padre si erge sprezzante contro il cielo. Un presagio sinistro, quasi una maledizione. La ragazza vuol tentare un ultimo saluto:
-         Padre!
Ma il vecchio non sembra udire il richiamo, o forse non vuole prestarvi ascolto. Resta immobile e svettante, lo sguardo fisso dinanzi a sé, come una tragica polena, roccia anch’esso. Il sole sta salendo e il suoi raggi si stanno facendo implacabili.
Il ragazzo prende per mano la sorella, per ricordarle che è l’ora. Lei vorrebbe fermarsi ancora ma lui la strattona verso la barca che si è già sollevata di un buon palmo. La marea sta montando velocemente:
-         Addio, figli miei, andate!
Liberata dall’approdo, la barca sta scivolando in acqua. Qualche colpo di remi. Alle loro spalle il mare ribolle, spinto dalla forza che sale dal profondo degli abissi. L’isolotto di scogli sta rimpicciolendo. Dalla cima della piccola rupe, il vecchio gira lentamente il capo verso la navicella che se ne va via. Collera, dolore, disperazione:
-         Io… vi odio!
Il livello del mare sale ancora.

Un gabbiano volava alto, planando con le grandi ali aperte che fendevano l’aria. Una falcata senza fine verso il mare, mentre si spandeva nell’aria quel suo gracidio fastidioso, petulante, lugubre.
Ormai il sole era a mezzogiorno del cielo e i vapori del calore rendevano tremuli e indefiniti i confini fra mare e terra.
Sulla lunga striscia di sabbia rovente, al di là delle onde, la ragazza riposava stremata, come una gemma preziosa adagiata su un manto di velluto. Volgeva il capo in su, riparandosi la fronte con la mano e socchiudendo gli occhi per resistere ai raggi del sole mentre, poco lontano, suo fratello dormiva accanto alla barca, sfinito per il lungo remare.
Il gabbiano proseguì il volo. Un battito d’ali e una nuova lunga planata interrotta da un tuffo rapido per ghermire un pesce che si era spinto in superficie.
Il mare era divenuto una tavola. Al largo, ai confini dell’orizzonte, una roccia appena affiorante ne increspava appena la superficie. Ancora pochi minuti e le acque sarebbero tornate perfettamente immobili, senza brividi. 
L’ampia scogliera delimitava quella bava di sabbia gialla dove la loro barca si era arenata, facendole da quinta e da confine.
Un grosso granchio rosa ruppe la serena cadenza della risacca e riguadagnò la riva per raggiungere un faraglione piazzato fra sabbia e onda.
Da dietro la compatta barriera di granito che chiudeva la riva fece capolino il volto di un bimbo, sei anni, forse sette, oltre la soglia di quella prima fanciullezza morbida e paffuta. Le sue fattezze sembravano anticipare per qualche verso l’impronta dell’adulto già leggibile in filigrana in quel corpicino ancora esile, con la pancia prominente, il sesso rattrappito fra i genitali, i glutei rotondi, a contrasto con il volto scavato, magro, le occhiaie profonde: un profilo arcigno, spigoloso, duro, cattivo. Dice la leggenda che un bimbo può anche essere il figlio del diavolo.
Anche il gabbiano che planava verso la riva sembrò spaventarsi per quell’apparizione improvvisa e il suo volo ebbe un’impennata, un colpo d’ali. Riprese quota per una nuova direzione.
La ragazza si era sollevata dalla sabbia, di scatto. Forse il gracidio del gabbiano o quell’apparizione ostile. Si deterse i seni e il pube, impregnati di sabbia. Il granchio rosa stava sfiorandole la coscia, ma lei non si ritrasse. La sua attenzione era tutta sul bambino che le si stava avvicinando, sempre sorridendo in quel modo strano, maligno. Un bambino. Come? Perché? Ma non erano scomparsi dal mondo tutti i bambini?
-         Lo sai, mamma. Non più genitori, non più figli. Solo noi. Noi e basta.
Com’era riuscito quel bimbo a sfuggire al nuovo ordine, a sottrarsi alla legge? Portava in sé il marchio della morte o quella di un’impronunciabile speranza?
La massa infocata del sole divampava enorme a incendiare il mondo, sino a cancellarlo. uel modo strano, malignqu
Noi, gli ultimi. 
(Leandro Castellani, 1968) 

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