Mi ci potrei
provare. Scrivere un racconto giallo, di quelli classici, all’inglese, con
morti ammazzati e investigatori che scoprono l’assassino e lo assicurano alla
giustizia ma, come da richiesta della curatrice, dovrei dar vita a un
giallo che coinvolga anche i settori gastronomico o enologico, secondo la
telefilosofia alla moda negli ultimi anni. Gastronomia d’avanguardia o
gastronomia tradizionale? Com’è cambiata la nomenclatura! A casa mia, quand’era
bambino, il pesce azzurro si chiamava “pesce”, tout court. Chi l’aveva mai
visto o assaggiato il pesce nobile, quello da ristoranti con la tovaglia
immacolata e sei forchette per commensale! E il Bianchello si chiamava “vin
bianch” senza altri appellativi. Vino bianco con l’aggiunta di una pastiglia di
solfito nella damigiana per non fargli prendere difetti, che poi, quando lo si
travasava nelle bottiglie, occorreva mettere un pezzetto di rame nell’imbuto
per neutralizzarne la chimica. E il pesce? Il pesce, azzurro - azzurrissimo ça va sans dire -
galleggiava in una larga pentola acquosa ravvivato da una stilla d’olio e
qualche foglia di salvia. Pesce “alla poretta”, era il nome ufficiale. Non è
che li amassi molto, quel piatto genuino quanto poco appetitoso e quel vino
bianco a cui il transito sul rame era
riuscito solo in parte a togliere i1 sano ma non piacevole tanfo del solfito.
Quindi, per quanto concerne la gastronomia, la ricetta vincente per il mio
racconto poteva essere: pesce azzurro annaffiato con Bianchello?
E il morto?
Come procurarmi un morto, possibilmente ammazzato? Ero tentato di pensare alla
vittima di un veleno arcano, proveniente da qualche paese esotico nel pieno
dell’Africa nera o in una zona inesplorata dell’Indonesia. Uno di quei veleni
non facilmente identificabili che comparivano in un romanzo del mio compianto
amico, giallista doc. Oppure una fanciulla, una meravigliosa fanciulla,
discinta a mestiere, seni prorompenti, ventre piatto, glutei sodi e gambe
affusolate, rinvenuta cadavere sul divano del salotto buono, soffocata da un
cuscino o dalle mani di un amante tradito. O meglio ancora una vecchietta,
precipitata dalle scale impervie di casa sua o dal terrazzo condominiale sul
quale aveva avuto la leggerezza di salire, spinta o spronata dalla fedele
badante venuta dall’est. O un cadavere ridotto a un misero mucchietto di
polvere azzurrina, soffice e odorosa come borotalco, ridotto a quei minimi
termini dall’arma letale di un alieno con testa a pera e occhi a mandorla, in
transito forzato da un pianeta remoto. Tutte soluzioni eccentriche ma un po’ scontate.
E invece no. Dovevo scegliere la soluzione più banale: l’uccisione di un
robusto enologo locale, celebre per aver lanciato sui mercati di mezza Europa
il Bianchello. Bianchello del Metauro, ovviamente, legato al nome del fiume
sulle cui rive l’impero romano aveva fermato l’orda dei bellicosi migranti
africani salvando la nostra civiltà sanamente razzista. E quell’inventore, o
riscopritore del Bianchello, qualcuno lo aveva ucciso alla maniera classica.
Quattro dita di lama infilate nel costato. Un morto, lungo disteso fra botti di
cemento, damigiane da venticinque libri e bottiglie col tappo di finto sughero.
Ero a buon punto: avevo trovato il mio bravo cadavere nonché ottemperato ai
desiderata della committenza. Morto ammazzato e, in più, enologo e
viti-vinicultore.
E adesso mi
ci voleva il deus ex machina, il disvelatore dello “strano caso dell’enologo
ucciso”, poliziotto, commissario, investigatore privato o volonteroso dilettante
che fosse. Pensai subito a un detective tipo Marlowe, sminchionato e ubriacone,
reso un po’ ottuso dall’alcool e dal fumo di sigarette ad alto contenuto
nicotinico, cooptato di solito da qualche magnate del petrolio a salvaguardia
delle sue giovani figliole concupite dal vizio: droga, alcool, tabacco, sedili
reclinabili o letti facili. Oppure un commissario con la pronuncia d’oltralpe e
i baffetti protervi, finto cretino per poi rivelarsi in extremis, a due pagine
dalla fine, un raffinato conoscitore di crimini e destini. O ancora un’anzianotta
arzilla e impicciona, dedita ad annaffiare begonie e scoprire misteri. O il
commissario sornione, made in Sicilia, calvo e paziente quanto amante delle
residenze vista mare, o addirittura – per dirla in francese – pied dans l’eau.
No, tutti personaggi già spremuti a dovere. Eppure un risolutore avrei dovuto
trovarlo, sennò che straccio di giallo sarebbe stato il mio? E l’enologo
accoltellato sarebbe rimasto uno dei tanti delitti apparentemente casuali
destinati a restare insoluti per anni o per sempre, nonostante gli sforzi
benemeriti della Giustizia ufficiale o di qualche sgallettata conduttrice della
tv. Trovare un commissario e trovarlo subito! Ed ebbi la fulgida idea di
ricorrere a quel cuoco – pardon, chef - di enormi dimensioni, barbuto ma con la
faccia d’angelo, che avevo visto in televisione. Si chiamava Antonino e veniva
dal Sud, sfoggiava una rotonda parlata campana e impartiva amabili pacche sulla
nuca ai suoi assistenti e collaboratori. Non somigliava al Commissario
diligente e buongustaio del mio amico Luciano, né ai detective privati,
disincantati e incattiviti, dei gialli made in USA. No, Antonino, con quel
volto da fanciullone troppo cresciuto, sarebbe stato l’ideale per far luce sul
delitto. Da bravo giallista – ancorché non particolarmente esperto – lo misi
subito al lavoro. Si era portato dietro un paio di aiutanti, individuati fra
gli assaggiatori che seguivano docili le sue imprese telegastronomiche, con
l’aggiunta di un poliziotto privato, preso a cottimo, tanto per andare sul
sicuro.
I primi
individui sospetti. Chi poteva avercela col morto? Il suo fedele quanto
affidabile aiutante, che aveva suggerito invano al protervo principale di
zuccherare il Prosecco per farne un Lambrusco bianco? Sua moglie, fedele
consorte e così estimatrice del lavoro maritale da prendere il vizietto di
testare ogni nuova partita di mosto, ogni botte, ogni damigiana, ogni
bottiglia? In parole povere era diventata un’ubriacona. La sua amante? Già,
perché il defunto enologo i suoi vizietti ce li aveva anche lui. E aveva
supplito allo stato perpetuamente etilico della legittima consorte ricorrendo
alle grazie della più giovane fra le sue aiutanti, quella adibita a incollare
le etichette sulle bottiglie, una ragazza sbarazzina, procace ma - purtroppo nessuno è perfetto! – nemica del
Bianchello e dedita esclusivamente alle bevande analcoliche, gassate e
zuccherate.
Recenti
dissensi sul piano lavorativo? Ce n’era stato uno, relativo al concorso per
l’ideazione della nuova etichetta, o logo, o brand per dirla in inglese. Ci si
erano provati in molti, studi professionali celebrati e cani sciolti ma ricchi
d’inventiva. La prima idea da cui erano partiti quasi tutti era stata quella di
sfruttare l’immagine del grande arco dedicato ad Augusto, porta e simbolo di
Fano, capoluogo del territorio del Bianchello. Ma era un arco sin troppo
inflazionato e agli auspicabili consumatori d’oltralpe, d’oltre Reno ed oltre
Manica, per non dire a quelli di oltre Oceano, avrebbe detto ben poco. C’era
chi aveva pensato di enfatizzare il riferimento al fiume Metauro e alla storica
battaglia: un baldo guerriero romano che schiacciava sotto il tallone ferrato
il ventre inerme di un cartaginese d’Africa, brandendo un bicchiere del bianco
nettare a mo’ di Santo Graal. Ma l’enologo si era terrorizzato alla sola idea:
mancava solo gli dessero del razzista! Era arrivato primo in graduatoria il
bozzetto del partecipante più inesperto, un bambino di anni sei, che aveva
disegnato un grappolone con grandi chicchi giallo-oro, tipo uva da tavola
pugliese. Poteva essere una traccia: e se il creatore dell’etichetta col
guerriero romano calpestante l’africano se la fosse presa col magnate
committente e con l’imberbe vincitore?
Da
coscienzioso autore suggerii ad Antonino di far attenzione all’arma del
delitto: quattro dita di lama sanguinante estratte dal costato dal defunto.
Roba da cavarci un DNA coi fiocchi. E infatti l’esame fornirà un risultato eccellente:
il DNA sulla lama è ovviamente del defunto, ma anche quello dei suoi due
fratelli. Indizio di un ripugnante fratricidio? Idi di marzo in famiglia? Dove
si nascondono i fantomatici germani? Veloce inchiesta: il fratello maggiore risulta
emigrato dieci anni fa nella Napa Valley californiana per insegnare agli immigrati
messicani i segreti del Bianchello; l’altro, il minore, si è trasferito da poco
in Cina dove sta creando, ovviamente associato
ai viticultori locali, un nuovo tipo di bevanda alcolica, per metà barolo e
per metà lambrusco. Roba da infartare un
enologo serio. Quindi, la pista fratricida va a vuoto.
Quale esperto gastronomo nonché enologico di complemento, l’ingombrante
Antonino passò ad indagare fra i “competitor”, per usare la parola inglese di
prammatica. Chi poteva avercela col rinomato Bianchello del defunto? Da
escludere gli altri produttori, potenziali rivali ma tutti amici o quasi.
Bianchelli DOP, DOC, DOCG, EXTRA eccetera, bianchelli di lusso concepiti come
prosecchi made in Fano e dintorni, che strizzano l’occhio ai nobili cugini del
Nord e flirtano con gli Champagne. O bianchelli nati plebei, in zone limitrofe
ma non troppo, da uve raccogliticce e malaticce, e magari corretti con qualche
polverina suggerita da un esperto quasi-enologo-fai-da-te, o ancora, bianchelli
contadini troppo robusti e sinceri, senza ritocchi e maquillage. Ma tutti uniti
da una sorta di sano patriottismo vinicolo. I maligni la chiamavano
consorteria. I più cattivi “Sacro Bianchello Unito”. Il delitto del sodale
bianchellologo li aveva gettati tutti nel panico: quel crimine perpetrato in
piena cantina, fra botti dame e bottiglioni, somigliava a una congiura. Che
l’assassino ce l’avesse con tutti i propugnatori del nostro rinomato vino da
pesce?
Il timore si tramutò in certezza quando di lì a poco – questione di ore
- un secondo enologo fu trovato cadavere, trafitto da analoga lama. Stavolta
alla schiena, perché la vittima potenziale, messa sull’avviso, aveva girato le
terga all’ultimo istante, tentando di darsi alla fuga, e il killer l’aveva
colpita fra le scapole. Un assassino seriale, dunque. Si rendeva necessaria
l’istituzione di una “task force”, con una guardia del corpo per ogni vinicolo
in pericolo.
Se fossi stato un autore più smaliziato, avrei indetto una bella
conferenza stampa per fare il punto
delle indagini. Con tutti i cronisti, nazionali ed esteri, seduti uno
accanto all’altro con in mano i relativi taccuini e ipod. Al termine della
quale i telecronisti d’assalto, e più ancora le fameliche telecroniste, si
sarebbero avventati sul povero Antonino, lo avrebbero fermato per strada piazzandogli
sotto il naso il microfono o il telefonino e
tempestandolo di domande: cosa pensava dei delitti e inoltre del
razzismo, dei migranti, della castrazione chimica, del PIL. E poi di che
squadra era tifoso, per chi avrebbe votato nelle prossime elezioni comunali,
regionali, politiche, europee eccetera. E incidentalmente gli avrebbero chiesto
se c’era qualche fermo in programma, se gli assassini, una volta assicurati
alla giustizia, si sarebbero pentiti e avrebbero chiesto perdono: alla moglie
ebbra o all’amante attacca-etichette, relativamente al primo cadavere, o ai
giovani figli ancora imberbi riguardo al secondo…
Come autore
mi stavo accorgendo di aver creato non un giallo ma un vero casino e non vedevo
l’ora di tirarmene fuori. Mi accingevo a rinunciare alla proposta e rassegnare
le mie dimissioni da giallista. Anche Antonino si era rivelato sostanzialmente
un incapace, buono solo a trinciar fine fine verdure e arrotolare spaghetti con
il forchettone. Ma… un momento: perché non avevo pensato a cercare sicari oltre
gli angusti limiti della mia terra? Altri possibili attentatori alla faziosa
supremazia del Bianchello! Altri vini, nelle mie Marche, potevano rivaleggiar
con il chiaro e un po’ inebriante nettare delle viti da “bianco”. Lasciati da
parte i “rossi”, da quello pastoso e fruttato che celebrava le lacrime di un
paese dell’anconetano a quello generico dei colli della finitima Pesaro, sino a
quello piceno, tutti sangiovesi romagnoli truccati da marchigiani, restava il
grande rivale, il precursore dei bianchi adriatici che aveva preceduto le
fortune del Bianchello, quel vinello giallino-verdognolo, infido e traditore,
già lanciato sui mercati grazie a una strana boccia che sembrava una
bottiglietta da profumo malata d’elefantiasi. Insomma il Verdicchio!
E se il
malvagio killer fosse stato uno scherano del Verdicchio, assoldato per
eliminare la pericolosa concorrenza? Spinsi Antonino a estendere le dovute
indagini in partibus infidelium e, col suo sistema di sganassoni fuori
ordinanza, coadiuvati da sostanziose bustarelle, il mio gastronomo preferito riuscì
a far confessare il portavoce ufficiale del Verdicchio, un chiacchierone,
logorroico per contratto, adibito a tesserne sperticate lodi nei congressi
nazionali e internazionali di arte culinaria, nei mercati ittici, nelle disfide
fra “brodetti” autoctoni e foresti e soprattutto a margine delle “prove” televisive
più seguite. Ci potevano essere gli estremi per una denuncia in piena regola
alle sonnacchiose e renitenti autorità giudiziarie.
Ma allora a
Staffolo, Cupramontana, Matelica e colli jesini se la presero di brutto. Noi
verdicchiesi degli assassini? Istigatori di sicari? Fomentatori di killer? Noi,
saremmo gelosi di una sorta di una pallida imitazione del nostro vino? Ma
quando mai! E l’irritazione sfociò in rappresaglia. Umiliati e offesi per
l’ingiusto sospetto, i produttori e i sostenitori del Verdicchio organizzarono
una pubblica manifestazione. Ma allora furono i bianchellesi a reagire di
brutto: noi degli imitatori? Vergognatevi! Da ambo le parti s’indissero pubbliche
manifestazioni di piazza con relativi comizi, cortei e striscioni. “Io che bevo
il buon Bianchello voglio bere solo quello”, gridavano i fanesi. E quelli di
Jesi: “Se non bevi il buon Verdicchio stai sicuro che ti picchio.” I difensori
del Bianchello mossero dalle terre di Montemaggiore al Metauro e quelli del
Verdicchio da Staffolo e da Matelica. Cosa sarebbe accaduto se le due compagini
si fossero scontrate a metà strada, dalle parti di Falconara Marittima? Il
solito nucleo di infiltrati black block, immancabili in ogni corteo, avrebbe potuto
assalire le Cantine, anche quelle sociali, democratiche e cooperative E intanto stavano già sfasciando
botti e spezzando bottiglioni nei supermercati lungo la strada: il profumo
acidulo del vino si spandeva per le vie dei borghi, entrava dalle finestre
aperte, mandava in coma gli alcolisti in giro. Si temeva l’Armageddon, lo
scontro finale.
La
catastrofe, un nuovo sessantotto, la rivoluzione? Per fortuna un politico di
buon cuore e poca fantasia pensò di arginare l’imminente cataclisma indicendo un
tavolo di trattative fra i leader e le delegazioni delle due schiere
belligeranti per cercare una composizione della vertenza a livello enologico.
Come prevedibile la composizione fu raggiunta attraverso un pastrocchiato
compromesso. Si decise, in segno di forzata pace, di creare tutti insieme un
nuovo vino bianco, con tutti i crismi comunitari possibili e immaginabili, da
denominare Bianchicchio, oppure Verdello. Previo referendum fra i beoni e salvo
il quorum del cinquanta per cento. Pace fatta. Tutto è bene quel che finisce
bene.
Mi avvio alla
conclusione del mio strampalato racconto ma l’ipotetico lettore potrebbe
eccepire: che razza di giallo è questo se non si scopre nemmeno uno straccio di
assassino? In altri termini, chi li avrebbe fatto fuori i due enologhi nelle
rispettive cantine? Certo, se fossi un giallista patentato ricorrerei a una
delle soluzioni di prammatica: svelare il criminale nella penultima pagina
individuandolo in qualcuno che non c’entra nulla, piovuto nella vicenda venti
righe prima della parola fine: il
gemello incognito di uno dei defunti, un nipote rientrato dall’Australia,
oppure la cugina del primo ammazzato che, visto il successo ottenuto col secondo
delitto, poteva aver deciso d’intraprendere la carriera della killeressa.
Oppure il compagno di vita e di amori di un viticultore frustrato. Purtroppo
non disponevo di un maggiordomo a cui poter accreditare i delitti in ultima
istanza, come nei sani gialli d’antan. E
allora, data la mia stolida inesperienza come giallista, decisi d’inventarmi l’omicida
più emblematico, sinestetico, metaforico e allegorico. E cioè il Presidente di una quasi ignorata
Accademia degli Astemi Intransigenti, un allampanato signore, astemio, vegano,
nemico del saccarosio e del glutine nonché con la segreta aspirazione a fare l’assassino.
Attualmente
ho messo sulle sue tracce il mio solerte investigatore che riuscirà sicuramente
a scovare qualche prova da esibire al Sostituto procuratore della Repubblica tuttora
in solerte attesa. Antonino ha già scoperto che il vegano astemio faceva collezione
di coltelli da delitto oltre che di etichette di acque minerali. Molto presto,
il caso potrà dirsi risolto e, con buona pace dei miei sconsiderati lettori, anche il giallo. E
questo è tutto. Farò meglio la prossima volta.
(Leandro Castellani, inserito nell'antologia "Brividi DiVini, Fano e la Valle del Metauro" a cura di Francesca Tombari)
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