sabato 14 settembre 2019

PROVE TECNICHE DI GIALLO ENOLOGICO


Mi ci potrei provare. Scrivere un racconto giallo, di quelli classici, all’inglese, con morti ammazzati e investigatori che scoprono l’assassino e lo assicurano alla giustizia ma, come da richiesta  della curatrice, dovrei dar vita a un giallo che coinvolga anche i settori gastronomico o enologico, secondo la telefilosofia alla moda negli ultimi anni. Gastronomia d’avanguardia o gastronomia tradizionale? Com’è cambiata la nomenclatura! A casa mia, quand’era bambino, il pesce azzurro si chiamava “pesce”, tout court. Chi l’aveva mai visto o assaggiato il pesce nobile, quello da ristoranti con la tovaglia immacolata e sei forchette per commensale! E il Bianchello si chiamava “vin bianch” senza altri appellativi. Vino bianco con l’aggiunta di una pastiglia di solfito nella damigiana per non fargli prendere difetti, che poi, quando lo si travasava nelle bottiglie, occorreva mettere un pezzetto di rame nell’imbuto per neutralizzarne la chimica. E il pesce? Il pesce,  azzurro - azzurrissimo ça va sans dire - galleggiava in una larga pentola acquosa ravvivato da una stilla d’olio e qualche foglia di salvia. Pesce “alla poretta”, era il nome ufficiale. Non è che li amassi molto, quel piatto genuino quanto poco appetitoso e quel vino bianco a cui il transito sul  rame era riuscito solo in parte a togliere i1 sano ma non piacevole tanfo del solfito. Quindi, per quanto concerne la gastronomia, la ricetta vincente per il mio racconto poteva essere: pesce azzurro annaffiato con Bianchello?
E il morto? Come procurarmi un morto, possibilmente ammazzato? Ero tentato di pensare alla vittima di un veleno arcano, proveniente da qualche paese esotico nel pieno dell’Africa nera o in una zona inesplorata dell’Indonesia. Uno di quei veleni non facilmente identificabili che comparivano in un romanzo del mio compianto amico, giallista doc. Oppure una fanciulla, una meravigliosa fanciulla, discinta a mestiere, seni prorompenti, ventre piatto, glutei sodi e gambe affusolate, rinvenuta cadavere sul divano del salotto buono, soffocata da un cuscino o dalle mani di un amante tradito. O meglio ancora una vecchietta, precipitata dalle scale impervie di casa sua o dal terrazzo condominiale sul quale aveva avuto la leggerezza di salire, spinta o spronata dalla fedele badante venuta dall’est. O un cadavere ridotto a un misero mucchietto di polvere azzurrina, soffice e odorosa come borotalco, ridotto a quei minimi termini dall’arma letale di un alieno con testa a pera e occhi a mandorla, in transito forzato da un pianeta remoto. Tutte soluzioni eccentriche ma un po’ scontate. E invece no. Dovevo scegliere la soluzione più banale: l’uccisione di un robusto enologo locale, celebre per aver lanciato sui mercati di mezza Europa il Bianchello. Bianchello del Metauro, ovviamente, legato al nome del fiume sulle cui rive l’impero romano aveva fermato l’orda dei bellicosi migranti africani salvando la nostra civiltà sanamente razzista. E quell’inventore, o riscopritore del Bianchello, qualcuno lo aveva ucciso alla maniera classica. Quattro dita di lama infilate nel costato. Un morto, lungo disteso fra botti di cemento, damigiane da venticinque libri e bottiglie col tappo di finto sughero. Ero a buon punto: avevo trovato il mio bravo cadavere nonché ottemperato ai desiderata della committenza. Morto ammazzato e, in più, enologo e viti-vinicultore.
E adesso mi ci voleva il deus ex machina, il disvelatore dello “strano caso dell’enologo ucciso”, poliziotto, commissario, investigatore privato o volonteroso dilettante che fosse. Pensai subito a un detective tipo Marlowe, sminchionato e ubriacone, reso un po’ ottuso dall’alcool e dal fumo di sigarette ad alto contenuto nicotinico, cooptato di solito da qualche magnate del petrolio a salvaguardia delle sue giovani figliole concupite dal vizio: droga, alcool, tabacco, sedili reclinabili o letti facili. Oppure un commissario con la pronuncia d’oltralpe e i baffetti protervi, finto cretino per poi rivelarsi in extremis, a due pagine dalla fine, un raffinato conoscitore di crimini e destini. O ancora un’anzianotta arzilla e impicciona, dedita ad annaffiare begonie e scoprire misteri. O il commissario sornione, made in Sicilia, calvo e paziente quanto amante delle residenze vista mare, o addirittura – per dirla in francese – pied dans l’eau. No, tutti personaggi già spremuti a dovere. Eppure un risolutore avrei dovuto trovarlo, sennò che straccio di giallo sarebbe stato il mio? E l’enologo accoltellato sarebbe rimasto uno dei tanti delitti apparentemente casuali destinati a restare insoluti per anni o per sempre, nonostante gli sforzi benemeriti della Giustizia ufficiale o di qualche sgallettata conduttrice della tv. Trovare un commissario e trovarlo subito! Ed ebbi la fulgida idea di ricorrere a quel cuoco – pardon, chef - di enormi dimensioni, barbuto ma con la faccia d’angelo, che avevo visto in televisione. Si chiamava Antonino e veniva dal Sud, sfoggiava una rotonda parlata campana e impartiva amabili pacche sulla nuca ai suoi assistenti e collaboratori. Non somigliava al Commissario diligente e buongustaio del mio amico Luciano, né ai detective privati, disincantati e incattiviti, dei gialli made in USA. No, Antonino, con quel volto da fanciullone troppo cresciuto, sarebbe stato l’ideale per far luce sul delitto. Da bravo giallista – ancorché non particolarmente esperto – lo misi subito al lavoro. Si era portato dietro un paio di aiutanti, individuati fra gli assaggiatori che seguivano docili le sue imprese telegastronomiche, con l’aggiunta di un poliziotto privato, preso a cottimo, tanto per andare sul sicuro.
I primi individui sospetti. Chi poteva avercela col morto? Il suo fedele quanto affidabile aiutante, che aveva suggerito invano al protervo principale di zuccherare il Prosecco per farne un Lambrusco bianco? Sua moglie, fedele consorte e così estimatrice del lavoro maritale da prendere il vizietto di testare ogni nuova partita di mosto, ogni botte, ogni damigiana, ogni bottiglia? In parole povere era diventata un’ubriacona. La sua amante? Già, perché il defunto enologo i suoi vizietti ce li aveva anche lui. E aveva supplito allo stato perpetuamente etilico della legittima consorte ricorrendo alle grazie della più giovane fra le sue aiutanti, quella adibita a incollare le etichette sulle bottiglie, una ragazza sbarazzina, procace ma  - purtroppo nessuno è perfetto! – nemica del Bianchello e dedita esclusivamente alle bevande analcoliche, gassate e zuccherate.
Recenti dissensi sul piano lavorativo? Ce n’era stato uno, relativo al concorso per l’ideazione della nuova etichetta, o logo, o brand per dirla in inglese. Ci si erano provati in molti, studi professionali celebrati e cani sciolti ma ricchi d’inventiva. La prima idea da cui erano partiti quasi tutti era stata quella di sfruttare l’immagine del grande arco dedicato ad Augusto, porta e simbolo di Fano, capoluogo del territorio del Bianchello. Ma era un arco sin troppo inflazionato e agli auspicabili consumatori d’oltralpe, d’oltre Reno ed oltre Manica, per non dire a quelli di oltre Oceano, avrebbe detto ben poco. C’era chi aveva pensato di enfatizzare il riferimento al fiume Metauro e alla storica battaglia: un baldo guerriero romano che schiacciava sotto il tallone ferrato il ventre inerme di un cartaginese d’Africa, brandendo un bicchiere del bianco nettare a mo’ di Santo Graal. Ma l’enologo si era terrorizzato alla sola idea: mancava solo gli dessero del razzista! Era arrivato primo in graduatoria il bozzetto del partecipante più inesperto, un bambino di anni sei, che aveva disegnato un grappolone con grandi chicchi giallo-oro, tipo uva da tavola pugliese. Poteva essere una traccia: e se il creatore dell’etichetta col guerriero romano calpestante l’africano se la fosse presa col magnate committente e con l’imberbe vincitore? 
Da coscienzioso autore suggerii ad Antonino di far attenzione all’arma del delitto: quattro dita di lama sanguinante estratte dal costato dal defunto. Roba da cavarci un DNA coi fiocchi. E infatti l’esame fornirà un risultato eccellente: il DNA sulla lama è ovviamente del defunto, ma anche quello dei suoi due fratelli. Indizio di un ripugnante fratricidio? Idi di marzo in famiglia? Dove si nascondono i fantomatici germani? Veloce inchiesta: il fratello maggiore risulta emigrato dieci anni fa nella Napa Valley californiana per insegnare agli immigrati messicani i segreti del Bianchello; l’altro, il minore, si è trasferito da poco in  Cina dove sta creando, ovviamente associato ai viticultori locali, un nuovo tipo di bevanda alcolica, per metà barolo e per  metà lambrusco. Roba da infartare un enologo serio. Quindi, la pista fratricida va a vuoto.
Quale esperto gastronomo nonché enologico di complemento, l’ingombrante Antonino passò ad indagare fra i “competitor”, per usare la parola inglese di prammatica. Chi poteva avercela col rinomato Bianchello del defunto? Da escludere gli altri produttori, potenziali rivali ma tutti amici o quasi. Bianchelli DOP, DOC, DOCG, EXTRA eccetera, bianchelli di lusso concepiti come prosecchi made in Fano e dintorni, che strizzano l’occhio ai nobili cugini del Nord e flirtano con gli Champagne. O bianchelli nati plebei, in zone limitrofe ma non troppo, da uve raccogliticce e malaticce, e magari corretti con qualche polverina suggerita da un esperto quasi-enologo-fai-da-te, o ancora, bianchelli contadini troppo robusti e sinceri, senza ritocchi e maquillage. Ma tutti uniti da una sorta di sano patriottismo vinicolo. I maligni la chiamavano consorteria. I più cattivi “Sacro Bianchello Unito”. Il delitto del sodale bianchellologo li aveva gettati tutti nel panico: quel crimine perpetrato in piena cantina, fra botti dame e bottiglioni, somigliava a una congiura. Che l’assassino ce l’avesse con tutti i propugnatori del nostro rinomato vino da pesce?
Il timore si tramutò in certezza quando di lì a poco – questione di ore - un secondo enologo fu trovato cadavere, trafitto da analoga lama. Stavolta alla schiena, perché la vittima potenziale, messa sull’avviso, aveva girato le terga all’ultimo istante, tentando di darsi alla fuga, e il killer l’aveva colpita fra le scapole. Un assassino seriale, dunque. Si rendeva necessaria l’istituzione di una “task force”, con una guardia del corpo per ogni vinicolo in pericolo.  
Se fossi stato un autore più smaliziato, avrei indetto una bella conferenza stampa per fare il punto  delle indagini. Con tutti i cronisti, nazionali ed esteri, seduti uno accanto all’altro con in mano i relativi taccuini e ipod. Al termine della quale i telecronisti d’assalto, e più ancora le fameliche telecroniste, si sarebbero avventati sul povero Antonino, lo avrebbero fermato per strada piazzandogli sotto il naso il microfono o il telefonino e  tempestandolo di domande: cosa pensava dei delitti e inoltre del razzismo, dei migranti, della castrazione chimica, del PIL. E poi di che squadra era tifoso, per chi avrebbe votato nelle prossime elezioni comunali, regionali, politiche, europee eccetera. E incidentalmente gli avrebbero chiesto se c’era qualche fermo in programma, se gli assassini, una volta assicurati alla giustizia, si sarebbero pentiti e avrebbero chiesto perdono: alla moglie ebbra o all’amante attacca-etichette, relativamente al primo cadavere, o ai giovani figli ancora imberbi riguardo al secondo… 
Come autore mi stavo accorgendo di aver creato non un giallo ma un vero casino e non vedevo l’ora di tirarmene fuori. Mi accingevo a rinunciare alla proposta e rassegnare le mie dimissioni da giallista. Anche Antonino si era rivelato sostanzialmente un incapace, buono solo a trinciar fine fine verdure e arrotolare spaghetti con il forchettone. Ma… un momento: perché non avevo pensato a cercare sicari oltre gli angusti limiti della mia terra? Altri possibili attentatori alla faziosa supremazia del Bianchello! Altri vini, nelle mie Marche, potevano rivaleggiar con il chiaro e un po’ inebriante nettare delle viti da “bianco”. Lasciati da parte i “rossi”, da quello pastoso e fruttato che celebrava le lacrime di un paese dell’anconetano a quello generico dei colli della finitima Pesaro, sino a quello piceno, tutti sangiovesi romagnoli truccati da marchigiani, restava il grande rivale, il precursore dei bianchi adriatici che aveva preceduto le fortune del Bianchello, quel vinello giallino-verdognolo, infido e traditore, già lanciato sui mercati grazie a una strana boccia che sembrava una bottiglietta da profumo malata d’elefantiasi. Insomma il Verdicchio!
E se il malvagio killer fosse stato uno scherano del Verdicchio, assoldato per eliminare la pericolosa concorrenza? Spinsi Antonino a estendere le dovute indagini in partibus infidelium e, col suo sistema di sganassoni fuori ordinanza, coadiuvati da sostanziose bustarelle, il mio gastronomo preferito riuscì a far confessare il portavoce ufficiale del Verdicchio, un chiacchierone, logorroico per contratto, adibito a tesserne sperticate lodi nei congressi nazionali e internazionali di arte culinaria, nei mercati ittici, nelle disfide fra “brodetti” autoctoni e foresti e soprattutto a margine delle “prove” televisive più seguite. Ci potevano essere gli estremi per una denuncia in piena regola alle sonnacchiose e renitenti autorità giudiziarie.
Ma allora a Staffolo, Cupramontana, Matelica e colli jesini se la presero di brutto. Noi verdicchiesi degli assassini? Istigatori di sicari? Fomentatori di killer? Noi, saremmo gelosi di una sorta di una pallida imitazione del nostro vino? Ma quando mai! E l’irritazione sfociò in rappresaglia. Umiliati e offesi per l’ingiusto sospetto, i produttori e i sostenitori del Verdicchio organizzarono una pubblica manifestazione. Ma allora furono i bianchellesi a reagire di brutto: noi degli imitatori? Vergognatevi! Da ambo le parti s’indissero pubbliche manifestazioni di piazza con relativi comizi, cortei e striscioni. “Io che bevo il buon Bianchello voglio bere solo quello”, gridavano i fanesi. E quelli di Jesi: “Se non bevi il buon Verdicchio stai sicuro che ti picchio.” I difensori del Bianchello mossero dalle terre di Montemaggiore al Metauro e quelli del Verdicchio da Staffolo e da Matelica. Cosa sarebbe accaduto se le due compagini si fossero scontrate a metà strada, dalle parti di Falconara Marittima? Il solito nucleo di infiltrati black block, immancabili in ogni corteo, avrebbe potuto assalire le Cantine, anche quelle sociali, democratiche  e cooperative E intanto stavano già sfasciando botti e spezzando bottiglioni nei supermercati lungo la strada: il profumo acidulo del vino si spandeva per le vie dei borghi, entrava dalle finestre aperte, mandava in coma gli alcolisti in giro. Si temeva l’Armageddon, lo scontro finale.
La catastrofe, un nuovo sessantotto, la rivoluzione? Per fortuna un politico di buon cuore e poca fantasia pensò di arginare l’imminente cataclisma indicendo un tavolo di trattative fra i leader e le delegazioni delle due schiere belligeranti per cercare una composizione della vertenza a livello enologico. Come prevedibile la composizione fu raggiunta attraverso un pastrocchiato compromesso. Si decise, in segno di forzata pace, di creare tutti insieme un nuovo vino bianco, con tutti i crismi comunitari possibili e immaginabili, da denominare Bianchicchio, oppure Verdello. Previo referendum fra i beoni e salvo il quorum del cinquanta per cento. Pace fatta. Tutto è bene quel che finisce bene.
Mi avvio alla conclusione del mio strampalato racconto ma l’ipotetico lettore potrebbe eccepire: che razza di giallo è questo se non si scopre nemmeno uno straccio di assassino? In altri termini, chi li avrebbe fatto fuori i due enologhi nelle rispettive cantine? Certo, se fossi un giallista patentato ricorrerei a una delle soluzioni di prammatica: svelare il criminale nella penultima pagina individuandolo in qualcuno che non c’entra nulla, piovuto nella vicenda venti righe prima della  parola fine: il gemello incognito di uno dei defunti, un nipote rientrato dall’Australia, oppure la cugina del primo ammazzato che, visto il successo ottenuto col secondo delitto, poteva aver deciso d’intraprendere la carriera della killeressa. Oppure il compagno di vita e di amori di un viticultore frustrato. Purtroppo non disponevo di un maggiordomo a cui poter accreditare i delitti in ultima istanza, come nei sani gialli d’antan.  E allora, data la mia stolida inesperienza come giallista, decisi d’inventarmi l’omicida più emblematico, sinestetico, metaforico e allegorico.  E cioè il Presidente di una quasi ignorata Accademia degli Astemi Intransigenti, un allampanato signore, astemio, vegano, nemico del saccarosio e del glutine nonché con la segreta aspirazione a fare l’assassino.
Attualmente ho messo sulle sue tracce il mio solerte investigatore che riuscirà sicuramente a scovare qualche prova da esibire al Sostituto procuratore della Repubblica tuttora in solerte attesa. Antonino ha già scoperto che il vegano astemio faceva collezione di coltelli da delitto oltre che di etichette di acque minerali. Molto presto, il caso potrà dirsi risolto e, con buona pace dei miei  sconsiderati lettori, anche il giallo. E questo è tutto. Farò meglio la prossima volta.  
(Leandro Castellani, inserito nell'antologia "Brividi DiVini, Fano e la Valle del Metauro" a cura di Francesca Tombari)

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