sabato 23 novembre 2019

IL TRASLOCO - parte seconda

(Un romanzo breve oppure un racconto lungo: seconda delle tre parti)


Il cellulare
Il vetusto televisore aveva smesso di funzionare del tutto. Lo spense. A chi chiedere aiuto per rintracciare la famiglia? E inoltre la sua casa, il suo paese, i suoi amici? Ci doveva pur essere un numero di cellulare a cui rivolgersi.
Il fedele telefonino, unica ancora di salvezza in quel deserto d’incroci e interferenze, gli offrì sollecitamente l’indicazione di un centralino per reclami. Formò il numero. Gli rispose una voce in un inglese quasi incomprensibile. Già, incomprensibile per lui che dell’inglese sapeva solo quel centinaio di parole divenute d’uso comune! Al tempo della scuola gli avevano consigliato di studiare il francese: col francese ci leggi Balzac e Flaubert, ma con l’inglese? Le lettere commerciali te le scrive il commercialista. Obbiezione: dimentichi Shakespeare! No, ma Shakespeare l’hanno tradotto in italiano bestie e porci. Che te ne importa di leggerlo in inglese! E invece col francese… E il suo mendace consigliere si era dilungato a raccontargli le meraviglie di una lingua e di una letteratura in cui convivono Corneille e Molière, Balzac e Flaubert. E Prévert dove lo mettiamo? E ci puoi andare in vacanza a Parigi a vedere la Tour Eiffel!
E così adesso non riusciva a capire quel che la voce telefonica del call center si affannava a spiegargli. Bel risultato! Quanto alla Torre Eiffel chi sa che fine aveva fatto? Magari si erano sbagliati anche con lei e l’avevano trasferita in Giappone fra i terremoti o in Groenlandia fra i ghiacci. Chiuse il telefono indispettito e depresso. Che fare? Cambiò finestra negandosi al monotono panorama dei grattacieli e raggiunse di nuovo la camera da letto. Chissà che, nel frattempo, qualcosa non fosse cambiato o che l’alieno sbadato non avesse rimediato allo sbaglio madornale. E invece, niente! Il solito panorama della pianura del Far West solcata dagli zoccoli di cavalli selvaggi. A meno che non si sbagliasse anche lui e si trattasse della pampa argentina. Adesso si pentiva, oltre di non aver praticato l’inglese, di non aver studiato nemmeno la geografia.
Finito in un appartamento, vecchiotto e da periferia, piazzato nella prateria americana, dove era finita la sua casa minimale già situata al centro o quasi dell’opulenta capitale italiana? Doveva uscire di lì, mettersi alla ricerca di qualcuno o qualcosa. Seguire le vie del cuore, le uniche frequentabili in quel guazzabuglio di panorami a casaccio. Intercettare il cuore di sua moglie, la donna amata, connettersi a lei mediante cammini  misteriosi quanto affidabili. Come fare? Il numero telefonico del suo cellulare dava costantemente occupato. Probabilmente anche sua moglie stava cercando di venir fuori da un guazzabuglio analogo oppure, nel caso che il suo trasferimento fosse avvenuto con la precisione meticolosa millantata dalla voce della tivù, stava chiedendosi dove fosse finito quel distrattone di suo marito, sempre con la testa fra le nuvole.

Un cavallo baio si era staccato dal branco e galoppava deciso alla volta dell’incongrua casa che lo stava ospitando. Si era arrestato proprio a un metro dalla porta volgendo su di lui due grandi occhi acquosi, quasi patetici. Un appello? Un invito a fuggire da quell’inammissibile appartamento? Ma lui non sapeva come si  monta in groppa a un cavallo, pure avendolo visto fare in molti film, non solo da ardimentosi cow boys ma anche da gentili amazzoni e persino da giovinette spericolate. E poi serviva una sella, non era mica al Palio di Siena, dove i fantini montano – come si suol dire – a  pelo!
Qualcosa doveva aver spaventato l’animale che si allontanò velocemente rientrando nel branco. Forse era stato il rombo, sgraziato e irritante, di un motore. Tese l’orecchio. Con un’ultima potente sgasata uno sgraziato motociclettone venne a fermarsi proprio davanti alla sua porta. Un chopper, una di quelle strane moto che somigliano a mezzi d’assalto. Come quello che montava Peter Fonda in “Easy Rider”, film strampalato che a suo tempo gli era piaciuto, anche o soprattutto come appello alla libertà e alla rivolta. Si sarebbero capiti con Peter Fonda o con colui che ne aveva preso il posto?

Peter lo invitava a salire a bordo. E lui si chiedeva se accettare d’istinto quel cenno d’invito lasciando da parte ogni remora.
-         Per andare dove?
-         Dove vuoi andare?
-         Prima dovrei sapere dove mi trovo.
-         Su rrr - disse Peter aumentando la sgassata a folle, con l’urgenza di ripartire 
Come avevano fatto a capirsi all’istante? Non era americano l’attore di “Easy Rider”? Lo avevano doppiato per lui?..
-         Tu sei Peter Fonda, ti ho visto al cinema.
-         Certo, qui mi ci hanno portato, come è successo a te, a tutti. Ormai la Terra la ricordo appena.
-         Già, ma con me hanno combinato un pasticcio. Hanno sbagliato destinazione. Non so neanche dove mi trovo. Non so come fare per rintracciare la mia famiglia, ritrovare la mia casa, il mio lavoro?
Peter lo guardava in maniera strana: cosa gli stava cianciando quel tipo lì sulla porta? Niente niente che fosse matto? Ingranò la marcia e si allontanò sgasando.
Era di nuovo solo. Rientrò in quel bislacco appartamento non suo, sbarrò porte e finestre. Poteva sperare solo nell’unico legame digitale rimastogli col vecchio mondo, il suo cellulare, sempre che continuasse ad essere attivo…

Senza la sua casa
Senza i suoi affetti, le persone che amava e i suoi ricordi, la vita non aveva più senso. Meglio ancora, era diventato un essere non definito, un’ameba in un mondo acquatico che lo respingeva. Dove dirigersi, come fare, nell’impossibilità di riagganciarsi con il presente o almeno di riannodare il filo con il passato? Tutto sembrava respingerlo. Nel piccolo frigorifero solo una confezione di quelle merendine cellofanate che aveva sempre odiato, al muro un vecchio arazzo che mostrava alcune fanciulle in abiti ottocenteschi, ai piedi di una scalinata rococò, da residenza estiva per ricchi o perlomeno per benestanti. Facevano volare una pallina pennuta usando piccole racchette: il volano? Ma tutto era sbiadito, sfocato, come se gli anni  o il sole cocente avessero trasformato l’immagine in una sorta di simulacro evanescente. Di moderno gli restava il telefonino, o meglio il cellulare. Strano che in quel mondo, a mezzo fra un passato remoto mai conosciuto e un passato prossimo, basato in buona parte sulle immagini della vita trascorsa, gli fosse rimasto disponibile quel ripostiglio di memoria digitale. Forse l’apparecchietto gli era rimasto in tasca quando gli alieni lo avevano strappato in fretta e furia dal vecchio mondo per scaraventarlo in questo nuovo. Digitò ancora una volta il numero di sua moglie. Cellulare ancora occupato o forse spento. C’era speranza che, conclusa una di quelle chilometriche telefonate per cui sua moglie era famosa, il numero fosse di nuovo disponibile, a proporgli certezze, come necessario strumento rabdomantico per ritrovare la strada di casa e ricongiungersi con la famiglia. Alla tv, che aveva ripreso miracolosamente a funzionare e si era riaccesa da sola, stavano trasmettendo uno sceneggiato: c’era un sacerdote in talare che percorreva un viottolo di campagna leggendo il Breviario e compitandone le parole a fior di labbra. Quand’ecco che due brutti ceffi, vestiti come comparse d’opera – facciamo conto Sparafucile nel Rigoletto – ne interrompevano il percorso, interrogandolo irriguardosamente: “Questo matrimonio non sa da fare”… Ma quello era l’inizio dei “Promessi sposi”, tradotto in immagini nel vecchio film di Camerini, in bianco e nero! Dunque anche la televisione si era omologata alla casa, rispecchiandone l’età e i contenuti? Eppure, pochi istanti prima, quella stessa tv aveva diffuso chiaramente l’annuncio sul trasferimento dei terrestri. A meno che non se lo fosse  immaginato!
Cercò di cambiar canale usando i tasti decrepiti di quel massiccio apparecchio dagli spigoli arrotondati e finalmente riuscì a incappare in un notiziario a colori, introdotto dalla solita procace ragazzina che pochi istanti prima – o qualche ora ? – gli aveva comunicato il trasloco del pianeta: “manifestazioni di studenti sotto la torre Eiffel”, capelloni con camicie a fiori e giovinette dall’aria precocemente sbattuta, l’immaginazione al potere, poliziotti con lo sfollagente e gli scudi di plastica... Come? Eravamo ancora nel fatidico sessantotto?
Lo ricordava bene quell’anno: frequentava la facoltà d’architettura a Roma, a Valle Giulia, la gradinata delle manifestazioni, i manganelli della polizia, gli idranti e i fumogeni,  la speranza di fondare un ordine nuovo, con l’ausilio dei compagni di lotta di Parigi, Berkeley, Londra eccetera, la palingenesi, l’abbattimento delle barriere del potere, the wall, il muro. Poi qualche spinello, nuove droghe, una furiosa febbre erotica da curarsi nei nuovi ghetti del piacere e poi ancora tutto svanito nel nulla, nella resa. Ma invece, stando a quel vecchio televisore bombato, tutto faceva ancora parte di uno sconcertante ma esaltante presente. Che i traghettatori alieni si fossero sbagliati confondendo non solo i luoghi ma anche le date? Che terribile guazzabuglio erano riusciti a creare?

La corriera blu
Il rombo asmatico della solita moto interruppe i suoi pensieri. Peter Fonda era riapparso sul suo assurdo chopper e lo attendeva alla porta:
- Se volevi fare la comparsa, sei  in ritardo, il bus passa fra cinque minuti...
Qualcosa si muoveva finalmente. Il suono roco di un clacson, come quello che caratterizzava la vecchia corriera blu – uno scassato torpedone – che, da bambino, lo portava ogni mattina in città, dato che alla scuola del paese c’erano solo le elementari e lui voleva andare avanti, medie, ginnasio, liceo, forse l’università. Si tirò dietro l’uscio, senza preoccuparsi di sfilare la chiave. Magari non fosse riuscito più a tornarci in quella sorta di casa abusiva! Salì a bordo mescolandosi alla gente e prendendo possesso dell’unico posto lasciato libero, accanto al conducente. Gente di tutte le età, uomini, donne, vecchi, bambini. C’era anche un giovane di colore seminudo a cui nessuno rivolgeva la parola, anzi lo guardavano male, con sospetto: come ci era capitato un africano, uno zulù col culo di fuori, in mezzo a quelle brave persone? Vedeva sfilare l’orizzonte, attraverso gli angusti finestrini, quasi delle strette fessure, senza che avesse la possibilità di cogliere qualcosa di già visto e conosciuto: davanti all’autista solo una strada bianca, di terra battuta, come quelle impervie della sua campagna. Dove lo stavano portando? 
-         Dove andiamo?
-         A Marsiglia, dove stanno facendo le riprese, non te lo ha detto Peter? Non è tuo amico, Peter Fonda?
Siamo in piena follia, pensò. Come potevano arrivare a Marsiglia “via Terra”, senza attraversare l’Oceano? Un altro sbaglio di trasmissione o di collocazione da parte di quegli alieni ignoranti? Un altro trasloco fatto a cacchio? 
-         Stiamo quasi arrivati. Vedi il castello d’If? E’ lì che ci hanno imprigionato Edmondo Dantes. Non l’hai letto il romanzo?
Se c’era il castello d’If non c’era dubbio: dovevano trovarsi a Marsiglia. La vecchia corriera  aveva oltrepassato il porto, davanti  alla Cannebière - ma era un bus anfibio? - ed era andata a parcheggiarsi proprio  nell’isolotto della vecchia fortezza adibita a prigione. 
-         Svelti, tutti dal costumista. Detenuti a destra, secondini a sinistra, guardate il vostro cartellino …
Come aveva fatto quello strano pullman a superare l’Oceano e raggiungere la Francia? E lui come aveva fatto a non accorgersi di nulla? E si trovò catapultato su quello strano set, insieme a gente che non conosceva, non sapeva da dove arrivassero, che lingua parlassero. Lo vestirono da detenuto con un blusone di tela juta, gli sporcarono la faccia col trucco e gli arruffarono i capelli. E lo piazzarono nell’angusto cortile della prigione, a condividere l’ora d’aria con gli altri detenuti. Si ritrovò accanto a quello che doveva essere il protagonista, un giovane dai capelli lunghi sul collo e lo sguardo dolce e rassegnato, ammannito da due incantevoli occhi grigio azzurri.
Proiettato misteriosamente in una realtà decolorata, in bianco e nero. Come isolato dal resto del mondo che presumibilmente continuava ad esistere tal quale, con tutti i suoi colori, le sue tinte e le sue sfumature. Il vento si era attutito e i rumori del porto non si udivano più. L’operatore stava girando la manovella della vecchia macchina da presa, come ai tempi del cinema muto. Il volto, i lineamenti, lo sguardo di quel giovane protagonista - quei capelli fluenti, quegli occhi grigio-azzurri -  gli richiamavano alla mente un dejavue, evocandogli un profilo per qualche verso familiare. E giunse improvvisa la rivelazione! Come poteva aver tardato ad accorgersene! Quel giovane era suo padre, e stava interpretando il film che lo aveva visto protagonista negli anni venti! Non c’era dubbio: era suo padre a vent’anni. Lo riconosceva dalle fotografie che gli aveva mostrato più volte, a testimonianza di quel suo sogno giovanile durato purtroppo “l’espace d’un matin” e naufragato in una vita normale, senza gloria. “Montecristo” era stato il suo film migliore, girato negli anni Venti, in Francia. Ed ora, per qualche ineffabile miracolo, forse per qualche burla rassicurante o sconfortante, il destino lo aveva messo accanto a suo padre, retrocedendolo di quasi un secolo.
Come avrebbe voluto rivelarglisi, parlargli, confidarsi, chiedergli ancora – per l’ennesima e forse ultima volta – assistenza conforto aiuto. Muoveva le labbra ma senza riuscire a pronunciare nemmeno una parola. Già, negli anni venti il cinema non sapeva  ancora parlare. In quell’universo bianco e nero nessuno dei presenti era in grado di emettere un suono. Tentò di farsi riconoscere da quel giovane padre ma quegli, vedendosi abbrancato da un estraneo, si era come ritratto. Eppure, ma solo per un istante, nutrì la sensazione che potesse averlo riconosciuto. Cosa di un attimo. Nel cielo dove il grigio aveva sostituito l’azzurro volava un unico grande pterodattilo, con le grandi ali membranose a fendere l’aria di un crepuscolo, grigio anch’esso. Sarebbe mai ritornato il colore?
E terminò la giornata di lavoro. Gli misero in mano alcuni vecchi franchi, quelli ormai fuori corso da decine d’anni, e lo ricondussero alla vecchia corriera blu, dove era già in ansiosa attesa il conducente, un omino paffuto e untuoso, come quello che aveva condotto Pinocchio nel Paese dei Balocchi.
-          Svelti, vi riporto a casa.
A casa? Quale casa? Decise di scendere alla prima fermata. Che gli importava di rivedere quella casa non sua! Tentò ancora una volta di digitare il numero di sua moglie al cellulare. Occupato, lei stava ancora parlando, ma lasciò l’avviso di chiamata: perché non ci aveva pensato prima? Così lo avrebbero avvisato appena il numero fosse stato libero.

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