Il cellulare
Il vetusto televisore aveva smesso di
funzionare del tutto. Lo spense. A chi chiedere aiuto per rintracciare la famiglia?
E inoltre la sua casa, il suo paese, i suoi amici? Ci doveva pur essere un numero
di cellulare a cui rivolgersi.
Il fedele telefonino, unica ancora di
salvezza in quel deserto d’incroci e interferenze, gli offrì sollecitamente l’indicazione
di un centralino per reclami. Formò il numero. Gli rispose una voce in un
inglese quasi incomprensibile. Già, incomprensibile per lui che dell’inglese
sapeva solo quel centinaio di parole divenute d’uso comune! Al tempo della
scuola gli avevano consigliato di studiare il francese: col francese ci leggi
Balzac e Flaubert, ma con l’inglese? Le lettere commerciali te le scrive il
commercialista. Obbiezione: dimentichi Shakespeare! No, ma Shakespeare l’hanno
tradotto in italiano bestie e porci. Che te ne importa di leggerlo in inglese!
E invece col francese… E il suo mendace consigliere si era dilungato a
raccontargli le meraviglie di una lingua e di una letteratura in cui convivono
Corneille e Molière, Balzac e Flaubert. E Prévert dove lo mettiamo? E ci puoi
andare in vacanza a Parigi a vedere la Tour Eiffel!
E così adesso non riusciva a capire
quel che la voce telefonica del call center si affannava a spiegargli. Bel
risultato! Quanto alla Torre Eiffel chi sa che fine aveva fatto? Magari si
erano sbagliati anche con lei e l’avevano trasferita in Giappone fra i
terremoti o in Groenlandia fra i ghiacci. Chiuse il telefono indispettito e depresso.
Che fare? Cambiò finestra negandosi al monotono panorama dei grattacieli e raggiunse
di nuovo la camera da letto. Chissà che, nel frattempo, qualcosa non fosse
cambiato o che l’alieno sbadato non avesse rimediato allo sbaglio madornale. E
invece, niente! Il solito panorama della pianura del Far West solcata dagli
zoccoli di cavalli selvaggi. A meno che non si sbagliasse anche lui e si trattasse
della pampa argentina. Adesso si pentiva, oltre di non aver praticato l’inglese,
di non aver studiato nemmeno la geografia.
Finito in un appartamento, vecchiotto
e da periferia, piazzato nella prateria americana, dove era finita la sua casa
minimale già situata al centro o quasi dell’opulenta capitale italiana? Doveva
uscire di lì, mettersi alla ricerca di qualcuno o qualcosa. Seguire le vie del
cuore, le uniche frequentabili in quel guazzabuglio di panorami a casaccio. Intercettare
il cuore di sua moglie, la donna amata, connettersi a lei mediante cammini misteriosi quanto affidabili. Come fare? Il numero
telefonico del suo cellulare dava costantemente occupato. Probabilmente anche
sua moglie stava cercando di venir fuori da un guazzabuglio analogo oppure, nel
caso che il suo trasferimento fosse avvenuto con la precisione meticolosa
millantata dalla voce della tivù, stava chiedendosi dove fosse finito quel
distrattone di suo marito, sempre con la testa fra le nuvole.
Un cavallo baio si era staccato dal
branco e galoppava deciso alla volta dell’incongrua casa che lo stava
ospitando. Si era arrestato proprio a un metro dalla porta volgendo su di lui
due grandi occhi acquosi, quasi patetici. Un appello? Un invito a fuggire da quell’inammissibile
appartamento? Ma lui non sapeva come si
monta in groppa a un cavallo, pure avendolo visto fare in molti film, non
solo da ardimentosi cow boys ma anche da gentili amazzoni e persino da
giovinette spericolate. E poi serviva una sella, non era mica al Palio di
Siena, dove i fantini montano – come si suol dire – a pelo!
Qualcosa doveva aver spaventato
l’animale che si allontanò velocemente rientrando nel branco. Forse era stato il
rombo, sgraziato e irritante, di un motore. Tese l’orecchio. Con un’ultima
potente sgasata uno sgraziato motociclettone venne a fermarsi proprio davanti
alla sua porta. Un chopper, una di quelle strane moto che somigliano a mezzi
d’assalto. Come quello che montava Peter Fonda in “Easy Rider”, film strampalato
che a suo tempo gli era piaciuto, anche o soprattutto come appello alla libertà
e alla rivolta. Si sarebbero capiti con Peter Fonda o con colui che ne aveva
preso il posto?
Peter lo invitava a salire a bordo. E
lui si chiedeva se accettare d’istinto quel cenno d’invito lasciando da parte
ogni remora.
-
Per
andare dove?
-
Dove
vuoi andare?
-
Prima
dovrei sapere dove mi trovo.
-
Su
rrr - disse Peter aumentando la sgassata a folle, con l’urgenza di
ripartire
Come avevano fatto a capirsi
all’istante? Non era americano l’attore di “Easy Rider”? Lo avevano doppiato
per lui?..
-
Tu
sei Peter Fonda, ti ho visto al cinema.
-
Certo,
qui mi ci hanno portato, come è successo a te, a tutti. Ormai la Terra la
ricordo appena.
-
Già,
ma con me hanno combinato un pasticcio. Hanno sbagliato destinazione. Non so
neanche dove mi trovo. Non so come fare per rintracciare la mia famiglia, ritrovare
la mia casa, il mio lavoro?
Peter lo guardava in maniera strana:
cosa gli stava cianciando quel tipo lì sulla porta? Niente niente che fosse
matto? Ingranò la marcia e si allontanò sgasando.
Era di nuovo solo. Rientrò in quel bislacco
appartamento non suo, sbarrò porte e finestre. Poteva sperare solo nell’unico legame
digitale rimastogli col vecchio mondo, il suo cellulare, sempre che continuasse
ad essere attivo…
Senza la sua casa
Senza i suoi affetti, le persone che
amava e i suoi ricordi, la vita non aveva più senso. Meglio ancora, era
diventato un essere non definito, un’ameba in un mondo acquatico che lo
respingeva. Dove dirigersi, come fare, nell’impossibilità di riagganciarsi con
il presente o almeno di riannodare il filo con il passato? Tutto sembrava
respingerlo. Nel piccolo frigorifero solo una confezione di quelle merendine
cellofanate che aveva sempre odiato, al muro un vecchio arazzo che mostrava
alcune fanciulle in abiti ottocenteschi, ai piedi di una scalinata rococò, da
residenza estiva per ricchi o perlomeno per benestanti. Facevano volare una
pallina pennuta usando piccole racchette: il volano? Ma tutto era sbiadito,
sfocato, come se gli anni o il sole
cocente avessero trasformato l’immagine in una sorta di simulacro evanescente.
Di moderno gli restava il telefonino, o meglio il cellulare. Strano che in quel
mondo, a mezzo fra un passato remoto mai conosciuto e un passato prossimo,
basato in buona parte sulle immagini della vita trascorsa, gli fosse rimasto disponibile
quel ripostiglio di memoria digitale. Forse l’apparecchietto gli era rimasto in
tasca quando gli alieni lo avevano strappato in fretta e furia dal vecchio
mondo per scaraventarlo in questo nuovo. Digitò ancora una volta il numero di
sua moglie. Cellulare ancora occupato o forse spento. C’era speranza che,
conclusa una di quelle chilometriche telefonate per cui sua moglie era famosa,
il numero fosse di nuovo disponibile, a proporgli certezze, come necessario
strumento rabdomantico per ritrovare la strada di casa e ricongiungersi con la
famiglia. Alla tv, che aveva ripreso miracolosamente a funzionare e si era
riaccesa da sola, stavano trasmettendo uno sceneggiato: c’era un sacerdote in
talare che percorreva un viottolo di campagna leggendo il Breviario e
compitandone le parole a fior di labbra. Quand’ecco che due brutti ceffi,
vestiti come comparse d’opera – facciamo conto Sparafucile nel Rigoletto – ne
interrompevano il percorso, interrogandolo irriguardosamente: “Questo
matrimonio non sa da fare”… Ma quello era l’inizio dei “Promessi sposi”,
tradotto in immagini nel vecchio film di Camerini, in bianco e nero! Dunque
anche la televisione si era omologata alla casa, rispecchiandone l’età e i
contenuti? Eppure, pochi istanti prima, quella stessa tv aveva diffuso
chiaramente l’annuncio sul trasferimento dei terrestri. A meno che non se lo
fosse immaginato!
Cercò di cambiar canale usando i
tasti decrepiti di quel massiccio apparecchio dagli spigoli arrotondati e
finalmente riuscì a incappare in un notiziario a colori, introdotto dalla
solita procace ragazzina che pochi istanti prima – o qualche ora ? – gli aveva comunicato
il trasloco del pianeta: “manifestazioni di studenti sotto la torre Eiffel”,
capelloni con camicie a fiori e giovinette dall’aria precocemente sbattuta,
l’immaginazione al potere, poliziotti con lo sfollagente e gli scudi di
plastica... Come? Eravamo ancora nel fatidico sessantotto?
Lo ricordava bene quell’anno:
frequentava la facoltà d’architettura a Roma, a Valle Giulia, la gradinata
delle manifestazioni, i manganelli della polizia, gli idranti e i
fumogeni, la speranza di fondare un
ordine nuovo, con l’ausilio dei compagni di lotta di Parigi, Berkeley, Londra
eccetera, la palingenesi, l’abbattimento delle barriere del potere, the wall,
il muro. Poi qualche spinello, nuove droghe, una furiosa febbre erotica da
curarsi nei nuovi ghetti del piacere e poi ancora tutto svanito nel nulla,
nella resa. Ma invece, stando a quel vecchio televisore bombato, tutto faceva ancora
parte di uno sconcertante ma esaltante presente. Che i traghettatori alieni si
fossero sbagliati confondendo non solo i luoghi ma anche le date? Che terribile
guazzabuglio erano riusciti a creare?
Il rombo asmatico della solita moto
interruppe i suoi pensieri. Peter Fonda era riapparso sul suo assurdo chopper e
lo attendeva alla porta:
- Se volevi
fare la comparsa, sei in ritardo, il bus
passa fra cinque minuti...
Qualcosa si muoveva finalmente. Il
suono roco di un clacson, come quello che caratterizzava la vecchia corriera
blu – uno scassato torpedone – che, da bambino, lo portava ogni mattina in
città, dato che alla scuola del paese c’erano solo le elementari e lui voleva
andare avanti, medie, ginnasio, liceo, forse l’università. Si tirò dietro
l’uscio, senza preoccuparsi di sfilare la chiave. Magari non fosse riuscito più
a tornarci in quella sorta di casa abusiva! Salì a bordo mescolandosi alla
gente e prendendo possesso dell’unico posto lasciato libero, accanto al
conducente. Gente di tutte le età, uomini, donne, vecchi, bambini. C’era anche
un giovane di colore seminudo a cui nessuno rivolgeva la parola, anzi lo
guardavano male, con sospetto: come ci era capitato un africano, uno zulù col
culo di fuori, in mezzo a quelle brave persone? Vedeva sfilare l’orizzonte,
attraverso gli angusti finestrini, quasi delle strette fessure, senza che
avesse la possibilità di cogliere qualcosa di già visto e conosciuto: davanti
all’autista solo una strada bianca, di terra battuta, come quelle impervie
della sua campagna. Dove lo stavano portando?
-
Dove
andiamo?
-
A
Marsiglia, dove stanno facendo le riprese, non te lo ha detto Peter? Non è tuo
amico, Peter Fonda?
Siamo in piena follia, pensò. Come
potevano arrivare a Marsiglia “via Terra”, senza attraversare l’Oceano? Un
altro sbaglio di trasmissione o di collocazione da parte di quegli alieni
ignoranti? Un altro trasloco fatto a cacchio?
-
Stiamo
quasi arrivati. Vedi il castello d’If? E’ lì che ci hanno imprigionato Edmondo
Dantes. Non l’hai letto il romanzo?
Se c’era il castello d’If non c’era
dubbio: dovevano trovarsi a Marsiglia. La vecchia corriera aveva oltrepassato il porto, davanti alla Cannebière - ma era un bus anfibio? - ed
era andata a parcheggiarsi proprio nell’isolotto
della vecchia fortezza adibita a prigione.
-
Svelti,
tutti dal costumista. Detenuti a destra, secondini a sinistra, guardate il vostro
cartellino …
Come aveva fatto quello strano
pullman a superare l’Oceano e raggiungere la Francia? E lui come aveva fatto a
non accorgersi di nulla? E si trovò catapultato su quello strano set, insieme a
gente che non conosceva, non sapeva da dove arrivassero, che lingua parlassero.
Lo vestirono da detenuto con un blusone di tela juta, gli sporcarono la faccia col
trucco e gli arruffarono i capelli. E lo piazzarono nell’angusto cortile della
prigione, a condividere l’ora d’aria con gli altri detenuti. Si ritrovò accanto
a quello che doveva essere il protagonista, un giovane dai capelli lunghi sul
collo e lo sguardo dolce e rassegnato, ammannito da due incantevoli occhi
grigio azzurri.
Proiettato misteriosamente in una realtà
decolorata, in bianco e nero. Come isolato dal resto del mondo che
presumibilmente continuava ad esistere tal quale, con tutti i suoi colori, le
sue tinte e le sue sfumature. Il vento si era attutito e i rumori del porto non
si udivano più. L’operatore stava girando la manovella della vecchia macchina
da presa, come ai tempi del cinema muto. Il volto, i lineamenti, lo sguardo di
quel giovane protagonista - quei capelli fluenti, quegli occhi grigio-azzurri
- gli richiamavano alla mente un dejavue,
evocandogli un profilo per qualche verso familiare. E giunse improvvisa la
rivelazione! Come poteva aver tardato ad accorgersene! Quel giovane era suo
padre, e stava interpretando il film che lo aveva visto protagonista negli anni
venti! Non c’era dubbio: era suo padre a vent’anni. Lo riconosceva dalle
fotografie che gli aveva mostrato più volte, a testimonianza di quel suo sogno
giovanile durato purtroppo “l’espace d’un matin” e naufragato in una vita
normale, senza gloria. “Montecristo” era stato il suo film migliore, girato
negli anni Venti, in Francia. Ed ora, per qualche ineffabile miracolo, forse
per qualche burla rassicurante o sconfortante, il destino lo aveva messo
accanto a suo padre, retrocedendolo di quasi un secolo.
Come avrebbe voluto rivelarglisi,
parlargli, confidarsi, chiedergli ancora – per l’ennesima e forse ultima volta
– assistenza conforto aiuto. Muoveva le labbra ma senza riuscire a pronunciare
nemmeno una parola. Già, negli anni venti il cinema non sapeva ancora parlare. In quell’universo bianco e
nero nessuno dei presenti era in grado di emettere un suono. Tentò di farsi
riconoscere da quel giovane padre ma quegli, vedendosi abbrancato da un
estraneo, si era come ritratto. Eppure, ma solo per un istante, nutrì la
sensazione che potesse averlo riconosciuto. Cosa di un attimo. Nel cielo dove
il grigio aveva sostituito l’azzurro volava un unico grande pterodattilo, con
le grandi ali membranose a fendere l’aria di un crepuscolo, grigio anch’esso.
Sarebbe mai ritornato il colore?
E terminò la giornata di lavoro. Gli
misero in mano alcuni vecchi franchi, quelli ormai fuori corso da decine d’anni,
e lo ricondussero alla vecchia corriera blu, dove era già in ansiosa attesa il
conducente, un omino paffuto e untuoso, come quello che aveva condotto
Pinocchio nel Paese dei Balocchi.
-
Svelti, vi riporto a casa.
A casa? Quale casa? Decise di
scendere alla prima fermata. Che gli importava di rivedere quella casa non sua!
Tentò ancora una volta di digitare il numero di sua moglie al cellulare.
Occupato, lei stava ancora parlando, ma lasciò l’avviso di chiamata: perché non
ci aveva pensato prima? Così lo avrebbero avvisato appena il numero fosse stato
libero.
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