Lo conobbi nel lontano 1970. Di lui avevo letto
”Il velocifero”, insuperabile e amabile ricognizione nella memoria di un tempo
restituito alla vita, ma avevo anche consultato il libro sulla letteratura
infantile, nato come sviluppo della sua tesi di laurea, un testo che Benedetto
Croce aveva definito una “buona analisi dell’animo dei fanciulli”.
Mi era stata
fatta la proposta di trarre uno sceneggiato televisivo dal suo romanzo forse
più celebre, “Orfeo in paradiso”, un singolare monologo interiore ma in terza
persona: la memoria non più o non solo come talismano di salvezza ma come
scommessa sul futuro. Lo lessi con curiosità e ne rimasi addirittura sconvolto:
era la storia – o la favola - di un patto faustiano con un enigmatico “signore
degli uccelli”, tale da consentire al protagonista di proiettarsi nel passato e
rivivere la vita della mamma perduta, ma cercando di influire sugli eventi,
modificando quella esistenza per sottrarla alle sofferenze e alle vicissitudini
più amare: “E’ l’amore che si fa beffe del tempo. Avrei capito più tardi che
Orfeo era un po’ Luigi Santucci – ma questo non succede con molti o tutti gli
scrittori? – per quel suo culto, un vero e proprio culto, della madre perduta –
Eva, come il nome che attribuì al personaggio - di cui conservava con religiosa
cura ogni minuta memoria.
Mi associarono
nell’impresa, come collaboratore alla sceneggiatura, Italo Alighiero Chiusano,
un finissimo e colto scrittore di cui una nazione meno distratta come la nostra
dovrebbe andar fiera. Fu un’esperienza entusiasmante che Luigi Santucci - Lillo
per gli amici - seguì da vicino, informandosi via via, con ansia ma con grande
rispetto, sulla composizione del cast, perchè in fondo ogni personaggio era
come un momento della sua storia interiore che s’incarnava, una pagina che
prendeva vita. Frequentò periodicamente anche il set.
Quello di Luigi Santucci è un romanzo molto
singolare. Sarebbe stato assurdo che lo avessi ridotto a una narrazione di
taglio teatrale, secondo il consueto andazzo degli sceneggiati, distruggendo
quel magico andirivieni della memoria, quel
continuo dialogo tra presente e passato, fra le promesse della vita
futura e la sua deludente realizzazione. Non potevo tradurre il tutto in un
racconto “oggettivo”. Cercai, anche attraverso il montaggio che curai
personalmente, di restituire il senso di questa sfida faustiana. E il funambolico monologo prendeva
corpo all’interno della grande scenografia del Duomo milanese e poi,
realisticamente, sullo stesso tetto del Duomo, come Santucci aveva immaginato.
Fu un lavoro
vissuto giorno dopo giorno in una stima reciproca che divenne amicizia.
Frequentai la sua casa, quella milanese e quella sul lago manzoniano, conobbi
Bice, la sua gentile moglie che tutelava e difendeva il marito con una
sensibilità pari alla sua.
Lillo era un
personaggio singolare, un gentiluomo un po’ d’altri tempi, rispettoso del prossimo,
discreto, schivo e insieme estroflesso, non invadente e insieme alla mano, mai
spocchioso anche se consapevole del suo valore, con alle spalle un esemplare
passato di resistente e partigiano, scrittore cattolico... “del dissenso” come
amava precisare a chi voleva racchiuderlo in una definizione di comodo, uno
scrittore di fiera formazione “lombarda” e ai cenacoli culturali lombardi molto
legato, sempre stimato dalla critica per la sua scrittura, lucida e insieme
fantastica, rigorosa ma aperta alla metafora, quanto di più lontano dal “maitre
à penser” spocchioso e protervo. Dopo di allora ci rivedemmo poche volte ma
restammo a lungo in contatto. Da ultimo nel 1995, quando compianse con me la
prematura perdita del caro amico Italo Alighiero per cui aveva giustamente la
massima stima.
(Leandro Castellani, in "Sulle tracce del Frontespizio",n.5)