venerdì 28 ottobre 2016

LUIGI SANTUCCI



Lo  conobbi nel lontano 1970. Di lui avevo letto ”Il velocifero”, insuperabile e amabile ricognizione nella memoria di un tempo restituito alla vita, ma avevo anche consultato il libro sulla letteratura infantile, nato come sviluppo della sua tesi di laurea, un testo che Benedetto Croce aveva definito una “buona analisi dell’animo dei fanciulli”.
Mi era stata fatta la proposta di trarre uno sceneggiato televisivo dal suo romanzo forse più celebre, “Orfeo in paradiso”, un singolare monologo interiore ma in terza persona: la memoria non più o non solo come talismano di salvezza ma come scommessa sul futuro. Lo lessi con curiosità e ne rimasi addirittura sconvolto: era la storia – o la favola - di un patto faustiano con un enigmatico “signore degli uccelli”, tale da consentire al protagonista di proiettarsi nel passato e rivivere la vita della mamma perduta, ma cercando di influire sugli eventi, modificando quella esistenza per sottrarla alle sofferenze e alle vicissitudini più amare: “E’ l’amore che si fa beffe del tempo. Avrei capito più tardi che Orfeo era un po’ Luigi Santucci – ma questo non succede con molti o tutti gli scrittori? – per quel suo culto, un vero e proprio culto, della madre perduta – Eva, come il nome che attribuì al personaggio - di cui conservava con religiosa cura ogni minuta memoria.
Mi associarono nell’impresa, come collaboratore alla sceneggiatura, Italo Alighiero Chiusano, un finissimo e colto scrittore di cui una nazione meno distratta come la nostra dovrebbe andar fiera. Fu un’esperienza entusiasmante che Luigi Santucci - Lillo per gli amici - seguì da vicino, informandosi via via, con ansia ma con grande rispetto, sulla composizione del cast, perchè in fondo ogni personaggio era come un momento della sua storia interiore che s’incarnava, una pagina che prendeva vita. Frequentò periodicamente anche il set.
Quello di Luigi Santucci è un romanzo molto singolare. Sarebbe stato assurdo che lo avessi ridotto a una narrazione di taglio teatrale, secondo il consueto andazzo degli sceneggiati, distruggendo quel magico andirivieni della memoria, quel  continuo dialogo tra presente e passato, fra le promesse della vita futura e la sua deludente realizzazione. Non potevo tradurre il tutto in un racconto “oggettivo”. Cercai, anche attraverso il montaggio che curai personalmente, di restituire il senso di questa sfida faustiana. E il funambolico monologo prendeva corpo all’interno della grande scenografia del Duomo milanese e poi, realisticamente, sullo stesso tetto del Duomo, come Santucci aveva immaginato.
Fu un lavoro vissuto giorno dopo giorno in una stima reciproca che divenne amicizia. Frequentai la sua casa, quella milanese e quella sul lago manzoniano, conobbi Bice, la sua gentile moglie che tutelava e difendeva il marito con una sensibilità pari alla sua.
Lillo era un personaggio singolare, un gentiluomo un po’ d’altri tempi, rispettoso del prossimo, discreto, schivo e insieme estroflesso, non invadente e insieme alla mano, mai spocchioso anche se consapevole del suo valore, con alle spalle un esemplare passato di resistente e partigiano, scrittore cattolico... “del dissenso” come amava precisare a chi voleva racchiuderlo in una definizione di comodo, uno scrittore di fiera formazione “lombarda” e ai cenacoli culturali lombardi molto legato, sempre stimato dalla critica per la sua scrittura, lucida e insieme fantastica, rigorosa ma aperta alla metafora, quanto di più lontano dal “maitre à penser” spocchioso e protervo. Dopo di allora ci rivedemmo poche volte ma restammo a lungo in contatto. Da ultimo nel 1995, quando compianse con me la prematura perdita del caro amico Italo Alighiero per cui aveva giustamente la massima stima.  
(Leandro Castellani, in "Sulle tracce del Frontespizio",n.5)

sabato 22 ottobre 2016

PENSIERI COME FARFALLE - IDILLIO FRA LE LETTERE



Oggi ho ritrovato un mio “pezzullo” scritto alla veneranda età di vent’anni e pubblicato sul periodico “Frusaglia”, nato dalla passione di in gruppo di amici, primi fra tutti Enzo Amadei, direttore responsabile, e Luciano Anselmi principale sostenitore. E’ un “pezzullo” sempliciotto, un po’ ingenuo, già malato di esuberanza verbale. Ve lo ripropongo tal quale, scusate la presunzione:
“Eccomi qua a strofinare la mia penna su un candido foglio di carta. E’ strano: basta appoggiare il pennino sul bianco che subito gli vien voglia di partire per i suoi buffi ghirigori che infilzano i pensieri come farfalle sulla tavoletta dell’entomologo. Un pensiero rosa ed ecco una frase frizzante, scoppiettante, zeppa di parole grassocce e spiritose, con la faccia sudata dal ridere, un pensiero nero ed ecco una composta teoria di parole in abito scuro e cappello duro; un pensiero grigio, d’ordinaria amministrazione e subito un drappello di parole curve sulla destra, perfettamente allineate, con il metro pieghevole nella tasca sinistra e le tavole per i logaritmi nel taschino interno della giacca. Poi vi sono i pensieri che odorano di gelsomino, quelli primaverili col vestito fantasia, i pensieri amorosi, a volte timidi, con le ciglia basse, a volte audaci con un mazzo di garofani rossi in mano e le vocali vibranti tenerezza. E’ un grande miracolo quello dei pensieri che s’infilzano sulla carta bianca, docili, obbedienti come scolaretti. (...)
Con la macchina da scrivere mi comporto così. Scrivo senza guardare mai il foglio, ma solo la tastiera bianca con il mio dito medio che vi intreccia sopra una specie di danza, una benedizione continua. Non so scrivere in altro modo: la mano sinistra si solleva solo ogni tanto per premere il tasto delle maiuscole col pollice o per far scorrere ad ogni riga il carrello con uno strano fruscio metallico. E la mano destra balla sulla tastiera per seguire il dito medio che batte: perché scrivo con un dito solo, ma vado veloce lo stesso. Ora ho cambiato il foglio e intanto ho pensato una storiella. Se il mio dito medio si innamorasse di una lettera? Mettiamo dell’A, o della Z. Infatti per me le lettere hanno ciascuna un volto. L’A, per esempio, me la immagino, anzi la vedo, come una ragazza formosa, dai capelli rossi, la Z come una piccola ragazza bruna, dagli occhi profondi di quel nero che a tratti sembra azzurro e a volte ha dei riflessi di metallo. E in mezzo all’alfabeto tutta una repubblica di brutte e belle figure. La G è antipatica come un ministro, uno di quelli che fanno vedere al cinema o sui giornali e che sembrano alti tre metri sullo schermo del cinemascope e invece non è vero, la D è una massaia con la borsa della spesa, la L un giocatore di calcio, la F fa la 1° liceale, se quest’anno è promossa, un altr’anno va in seconda. Non ditemi perché: non saprei spiegarlo, ma solo che ci pensi un poco me le vedo così. Immaginiamo dunque che il mio dito medio si innamori della A o della Z. La danza che intreccia sulla tastiera avrebbe fine ed esso se ne starebbe per ore con la sua lettera preferita: AAAAAAA oppure ZZZZZZZ. La letteratura sarebbe rovinata ma il dito medio della mia mano destra sarebbe felice. E invece no: strepita, incalza, martella, corre, fa il diavolo a quattro sulla tastiera, incrocia benedizioni e crea parole rosse o nere sulla carta bianca.” 
(Leandro Castellani)

venerdì 21 ottobre 2016

CAROLINA E LE STORIE



Di Carolina Invernizio, prolifica scrittrice piemontese che furoreggiò nella seconda metà dell’ottocento e inizio novecento, si conosce soprattutto “Il bacio di una morta”, grazie al cinema popolare degli anni Cinquanta. Ma è solo una fra le cento (diconsi cento) storie nate dalla penna di questa gentile signora decisamente grafomane. Carolina Invernizio, se non la capostipite è certo la più popolare rappresentante di quel “genere” che sotto vari nomi – romanzo s’appendice, feuilleton, trivialliteratur... - rappresentò il lato più aggredibile della narrativa ottocentesca, il controcanto popolare dei vari Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi, Walter Scott, Charles Dickens eccetera. Dei cento libri scritti da Carolina ne ho letti appena una decina, e debbo dire che rappresentano il non plus ultra di una narrativa noir e insieme romantica. Il lungo romanzo “La felicità nel delitto”, ultima mia lettura, è un po’ il compendio di tutto un universo popolar-borghese, ritratto per la gioia di lettori e sopratutto di lettrici alla ricerca di forti passioni e accadimenti straordinari. Dovessimo indicare un corrispettivo attuale dovrebbe rifarci a quelle serie televisive di produzione spagnola o sudamericana dove, in un gioco di accadimenti straordinari, si seguono passo passo, talora con estenuante lentezza da lumaca, la vita e le morti di intere generazioni, tipo “Il segreto” per fare un esempio. Un compensativo di quelle storie troppo realistiche e insulse, di quella mancanza di fantasia, di quegli approcci aggressivi e un po’ volgarucci di altre fiction (e romanzi) alla  moda. Ma torniamo al romanzo: raccontarlo è quasi impossibile o necessiterebbe di un numero di pagine non inferiore a quelle occupate dal testo. Si comincia con un delitto: una morte violenta ad opera di una dama velata, che uccide il presumibile sposo lasciando una bimba a piangere su cadavere. Di qui si parte: ma piovono velocemente nuovi personaggi e di ognuno di essi, con digressioni che diventano altrettanti romanzi nel romanzo, si narrano vicende, antecedenti ed eredi, tutti ingarbugliati in legami di sangue o di affetti. Fanciulle bellissime, virginali quanto disgraziate, preda di giovinotti che dicono di amarle e invece le seducono; maliarde con una doppia vita - adescatrici e ragazze illibate -, donne di mezza età con l’animo di mezzane corruttrici oppure di sante, perverse o consacrate al bene. E amori che durano tutta una vita, con agnizioni e ricongiungimenti inattesi. Gli accidenti si moltiplicano, la fantasia esuberante della Invernizio non concede tregua, ci riserva a ogni pagina nuove sorprese. E il delitto non paga, non basta una vita di espiazione a evitare il rimorso e il castigo. Un Dostoesky in pillole. Si rida fin che si vuole. Ma come non riconoscere l’esuberanza delle invenzioni e la maestria nel rappresentare un mondo di colori accesi, di passioni indomabili, di bianchi e neri senza mezze tinte, quasi una funzione esorcizzante nei confronti della letteratura rosa, evasiva, borghese e femminile di questa indomita piemontese? 
(Leandro Castellani)

domenica 16 ottobre 2016

A' LA MANIERE DE...TV SPAGNOLA e SUDAMERICA



Arianna, la giovane bellissima erede del maggior possidente della regione della Sierra Recondita cade innamorata del giovane  stalliere che somiglia tanto ad Antonio Banderas. Scoppia la passione: Arianna rimane incinta e suo padre, per nascondere la vergogna di famiglia, l’affida a un suo cugino, don Coso, che vive una vita solitaria in un castello solitario. Intanto il giovane stalliere, licenziato in tronco, fugge da Sierra Recondita e trova da lavorare come tuttofare presso una ricca vedova di città, tale donna Quell’Altra. Arianna dà alla luce un bimbo che il vecchio Don Coso alleva come un figlio, tanto è vero che da cresciutello il giovane Rubicondo lo riterrà suo padre. Sua madre Arianna, invece, lo ha abbandonato ed è fuggita in città, dove verrà  ospitata dalla ricca vedova che peraltro è sua cugina. E qui chi ti va a incontrare? Il giovane stalliere che l’ha sedotta consenziente, il quale, nel frattempo, ha sposato una gagliarda massaia, donna Luna. La gagliarda massaia non fa troppa fatica ad accorgersi che l’attrazione fra suo marito e la bella Arianna è ripresa alla grande, per cui indignata e offesa, tenta come estrema soluzione di avvelenare la giovane che verrà salvata in extremis dal giovane ed aitante dottor Bravissimo, del quale si innamora. Muore il vecchio don Coso e il suo giovanissimo erede si mette in testa di ritrovare la madre che lo ha abbandonato a suo tempo. Salvata dal dottore, Arianna è convinta che sia stato  il suo antico amore a tentare di avvelenarla  lo mette alla porta. Verrà assunto come uomo di fiducia proprio dal ragazzo alla ricerca di sua madre, che ignora che quello stalliere è suo padre. Sì, proprio suo padre. Intanto il signore di Sierra Recondita, rimasto senza eredi, era riuscito a rintracciare un suo figlio maturale natogli molti anni prima, ed aveva finanziato i suoi studi di medicina. Si trattava proprio del medico che aveva salvato sua figlia. La storia s’ingarbuglia, c’è bisogno di una catastrofe per sbrogliare la matassa. Impieghiamo un maremoto che distrugga il castello avito castello dove abitava il vecchio Don Coso. Cercando di mettere in salvo i documenti, il suo figlio adottivo, giovane apprendista presso il medico, scopre che suo padre è un altro, cioè proprio l’uomo che ha assunto come tuttofare. Ma allora la massaia donna Luna è sua madre. Ma allora la figlia di primo letto di donna Luna, della quale è follemente innamorato, potrebbe essere sua sorella! Non sospetta di avere come rivale proprio il giovane figlio della contessa sua madre, che nel frattempo si è risposata e ha avuto un figliob che, cresciutello, si è innamorato anch’esso della figlia i Donna Luna. Ma durante un duello i due giovani scoprono di avere entrambi un difetto fisico che caratterizza la loro stirpe, l’alluce valgo. Quindi sono fratelli, ma allora hanno la madre in comune, ma allora la ragazza di Donna Luna non è sua sorella. Fine della seconda o terza stagione. Ma nel proseguo ne vedremo delle belle. 
(Leandro Castellani, à la manière de... sceneggiati spagnoli)

sabato 15 ottobre 2016

A' LA MANIERE DE...GRAND'HOTEL



Quella mattina era uscita di casa in preda a un dolce sentimento d’attesa. Sapeva che il destino non poteva negarle l’amore, un amore speciale per lei sola, diciott’anni, bellissima, le labbra sempre atteggiate a una smorfietta che i suoi amici trovavano deliziosa e le amiche sdegnosa, i capelli color del grano, le forme adolescenziali ma già sbocciate rattenuta da un abitino a fiori rosa. Si allontanò dal paese, voleva raggiungere la campagna, in solitudine, mescolarsi al grano quasi maturo. E a un tratto fu spinta ad alzare gli occhi verso il cielo, uno strano ordigno stava scendendo veloce verso terra: un aereo in difficoltà? Un meteorite? Ma somigliava piuttosto a una di quelle capsule al rientro dallo spazio di cui avevano parlato i giornali, pubblicandone anche la foto a colori, a piena pagina: in quei giorni si attendeva il rientro dall’atmosfera di un astronauta solitario vissuto due mesi sulla Luna. Il bolide piombò a terra, facendo ondeggiare il grano come una forte brezza d’estate. Rita rimaneva immobile, attratta da quel globo luminoso che era venuto a spegnersi posandosi a pochi metri da lei. E improvvisamente qualcosa si mosse, si aprì il massiccio portello della capsula e l’ospite uscì fuori, serrato in uno scafandro da palombaro o meglio da astronauta. Rita avrebbe voluto fuggire, allontanarsi da quell’essere misterioso che le faceva paura: un abitante di un pianeta misterioso? Forse un mostro venuto dallo spazio? L’astronauta si tolse lo scafandro che gli serrava la testa: le apparve un giovane bellissimo, qualche anno più di lei, con due occhi intensi, profondi, neri come la pece, che la fissarono con evidente curiosità: - Salve, spero di non averla spaventata. Sono Nicola, rientrato dallo Spazio, strano che non ci sia nessun ufficiale ad accogliermi. Volevo dire: quale accoglienza migliore che vedere lei? Posso chiederle il suo nome? - Mi chiamo Rita. - Nome bellissimo, e io sono... - Lo so benissimo chi è lei, ne hanno parlato i giornali, lei è... Il giovane le troncò la parola: - Nicola, semplicemente Nicola. E il destino che mi ha portato proprio qui, vicino a lei, al ritorno dallo spazio... Rita gli sorrise: l’incanto di quell’incontro Sì, lo sapeva, si sarebbero rivisti e forse...
(LEANDRO CASTELLANI à la manière de... Grand’Hotel)