Borghesia batte aristocrazia 2-0
Ho il deprecabile vezzo di
effettuare periodicamente una sana quanto impervia incursione fra i romanzi
della seconda metà dell’ottocento, il secolo del romanzo per antonomasia.
C’è tutto un fortunatissimo filone di
storie popolari che, ripercorso oggi, ci appare come un reperto archeologico di
antiche passioni e di tramontati sentimenti. Mentre da noi in Italia impazzavano
Carolina Invernizio, con le sue storie truci di povere derelitte e crudeli
aristocratici, e Giovanni Ruffini, mazziniano anarcoide scrittore di buoni
sentimenti, col suo “Dottor Antonio”, in Francia motivi di critica sociale riuscivano
a penetrare anche in quei romanzi che oggi definiremmo rosa, come ne “Il
romanzo di un giovane povero” (1958) di Octave Feuillet, non solo sagra dei
buoni sentimenti. Ma la vetta è forse rappresentata da quel “Padrone delle
Ferriere”, scritto da Geoge Ohnet nel 1882, che mi sono accinto a rileggere.
Una storia di amori traditi e di amori ritrovati, una altalena, una
“ginnastica” - per dirla col De Amicis - di sentimenti nobili e perversi, ma
soprattutto una visione della società da cui risulta palese il conflitto fra
un’aristocrazia ormai in declino e una classe borghese in evoluzione, forse più
ambiziosa e spietata, ma che dell’aristocrazia eredita un senso dell’onore
spinto agli estremi. Dei miti, o meglio dei valori, che il testo sottolinea
oggi non ne è rimasto in piedi nessuno, sono stati tutto più o meno fagocitati
dal tempo: la strenua fedeltà a un legame matrimoniale imposto, l’illibatezza
delle fanciulle, la difesa quasi umoristica di un decoro da tutelare, un
parossistico senso del dovere e così via. Al lettore di oggi forse risulta più
moderna e condivisibile una storia medioevale rispetto a questo racconto che
precede non di molto la storia dei nostri nonni: giovani aristocratiche
altezzose ma di nobile sentire (Claire) e aristocratici libertini e mascalzoni
(Gaston Bligny), borghesi ignoranti e un po’ cafoni (Moulinet con sua figlia
Athénais) e borghesi integerrimi e incorruttibili. Come Philippe Delbray, il
padrone delle Ferriere, un proto-industriale che si è fatto da sé, prototipo
ante-litteram del self-made-man:
conquista la consorte che lo disprezza con il suo amore pudico e la sua
adamantina rettitudine trasformando una sdegnosa e smorfiosetta aristocratica
in un angelo del focolare nonché dei bisognosi. Una lettura quasi
umoristicamente edificante ma in fondo piacevole, come un placebo tranquillante dopo le spericolare
immersioni nei thriller americano alla moda.
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