giovedì 17 dicembre 2015

PAROLE PAROLE PAROLE...




Assente dal paese per più di una decina d’anni, il filosofo  Ernst Cassirer, rimettendo piede in Germania, fece una mirabolante scoperta: dopo l’uragano del nazismo non era più in grado di capire la sua lingua tedesca, le parole avevano assunto un significato totalmente diverso da quello originario.
Credo che in Italia, da quarant’anni a questa parte, sia successa un po’ la stessa cosa. Ecco, faccio conto di essere rimasto assente per il corso di una generazione, facciamo due, e guardate un po’ cosa mi ritrovo.

“Compagno”: negli anni Cinquanta era il termine usato per definirsi fra loro dai militanti comunisti, quelli cantati da Guareschi nel suo “Don Camillo” o ironizzati dal medesimo nelle vignette dei “trinariciuti”. Comunista: un militante leale e combattivo, di schietta fede marxista-leninista, formato sui sacri testi, tipo il Capitale e il Manifesto, o sulle più agevoli ma puntuali volgarizzazioni del “Calendario del popolo”, frequentatore di cellule e sezioni, distributore di volantini o di birra e salsicce alle feste dell’Unità, vetero-comunista anteguerra o neo-comunista post-resistenziale. Spesso individuabile anche dal modo di vestire: bandite giacca e cravatta a favore di maglioni in lana ruvida, capelli riccioluti ma corti sulla nuca, sfumatura alta e fede sincera in quell’idilliaco socialismo reale praticato nell’Unione Sovietica all’ombra di un papà bonario e dai baffi rassicuranti che si chiamava Giuseppe Stalin, Baffone per i nemici, in aperta e fiera competizione con gli incravattati e profumati democristiani, baciapile e forchettoni un po’ calvi o con la chioma ben ravviata. Ma le differenze poltico-ideologiche fra bianchi e rossi non ne mettevano in discussione la reciproca dignità personale, talvolta l’amicizia. Civilmente e umanamente comunisti, democristiani o genericamente disimpegnati potevano essere amici fra loro, anche fraterni. Un po’ più settarie le sporadiche rappresentanti del gentil sesso, divise equamente fra rubiconde massaie e vigorose pasionarie, propense a snobbare le signore aristocratiche nonché le conventucole borghesi fuori o dentro le chiese.
Oggi i termini “compagno” e “compagna” hanno un significato ben diverso: identificano tutte quelle coppie che un tempo si sarebbero dette di “concubini”, cioè le conviventi o i conviventi che hanno deciso per necessità o per scelta ideologico-pratica di non consolidare il loro legame mediante matrimonio, civile o religioso che sia. A tal punto la vecchia accezione è divenuta desueta che anche gli uomini sposati e le donne coniugate preferiscono usare in pubblico i termini di compagni e compagne piuttosto che di mariti e mogli. Fa più fino, à la page per dirla in francese. Il termine “compagni” si estende poi anche a conviventi – o concubini – dello stesso sesso, ma queste ultime o questi ultimi smaniosi il più delle volte, al contrario dei primi, di sancire la loro unione con nozze più o meno regolari nel corso delle quali esibire abiti bianchi, bouquets, confetti e lancio di riso non integrale, con successivo festino e bomboniere.
La vecchia accezione è ormai desueta: non di rado i discendenti prossimi o remoti di quello che fu un tempo il comunismo oggi si sono borghesizzati e incravattati, hanno i cappelli fluenti sulla nuca, quando non appartengono alla cosiddetta variante “radical chic”: tolleranti con i simili e intolleranti al massimo verso tutti gli altri, con ostentati atteggiamenti di superiorità sino all’ostracismo verso i non allineati, i devianti ideologici, e così via. Non  più compagni ma disamorati e insofferenti “amici”.
(da "Parole" di R.M.Ciacosa)
 

domenica 22 novembre 2015

IO E LA TV





In occasione del suo ottantesimo compleanno Leandro Castellani riassume, in questa esclusiva intervista, il senso e il valore del suo contributo personale al linguaggio televisivo

Quando negli anni Sessanta incontrai la televisione ero molto giovane ma la tv era più giovane di me, proprio una bambina! Per strada feci molte esperienze, imparai molte cose, ma altre a mia volta ne insegnai a quella bambina ancora ingenua, aperta alla vita e desiderosa di imparare.

Quale è stato il tuo contributo personale all’evoluzione del linguaggio televisivo e delle sue formule?

Cerco di essere sincero. Alla mia età è inutile buttarsi via. Tanto ci hanno già pensato e ci pensano gli altri.
Dunque, ho iniziato con i documentari, o meglio con le inchieste, due generi che usano in parte gli stessi materiali ma con finalità diverse. Il documentario “documenta” (nasce dal cinema), l’inchiesta indaga (nasce dal giornalismo), propone, fornisce pezze d’appoggio alla scoperta di un fatto o per verificare una ipotesi.
Agli inizi degli anni Sessanta esistevano solo due modi di far “documentario” alla tv. Il primo riprendeva la tecnica dello stagionato documentario cinematografico nostrano (medio e cortometraggi), applicando una grammatica tassativa o quasi. Si cominciava con un gran totale “in campo lungo” di un paesaggio o di una città, poi si passava a un campo medio, a un campo ancor più ravvicinato o ad una panoramica estenuantemente lenta (da destra a sinistra o dal basso in alto), mentre la “voce fuori campo” declamava un testo pseudo-poetico che andava per conto suo. L’ultima immagine era quasi sempre un tramonto.
Il secondo modo di far documentario era quello introdotto dai nuovi telecronisti che avevano scoperto un modo più vivace di effettuare le riprese (invertibile in 16mm.), spezzando la vecchia grammatica grazie all’introduzione delle interviste (quasi sempre con testo messo a punto, iterate più volte alla ricerca della versione più lineare e senza pause, con buona pace della spontaneità o “verità”). Con la debita eccezione di alcuni “stili” personali: Carlo Alberto Chiesa aveva vinto il primo Prix Italia della Sezione Documentario con una “finta” diretta della mattanza di tonni in Sicilia, in realtà realizzata e montata a più mani; Ugo Gregoretti aveva bissato il Premio nel 1960 con un divertente racconto fra poesia e umorismo sulla “Sicilia del Gattopardo”.
I miei non erano documentari e neppure cronache telegiornalistiche. Intanto innovavo la vecchia grammatica stantia, disprezzando i “campi lunghi” a favore del primo piano e del dettaglio. Poi introducevo una sorta di teaser (che io chiamavo “pre-titolo”) cioè una breve aggressiva premessa di un minuto, poco meno o poco più, per catturare l’attenzione dello spettatore sul tema affrontato nel programma. Sino ad allora non ci aveva pensato nessuno.

Come sei arrivato  a queste innovazioni di linguaggio?

Ho scoperto il mio modo di fare inchieste quasi per caso, anzi potrei dire “su commissione”, quando ricevetti l’incarico di organizzare in un racconto una serie di interviste ai maggiori scienziati nucleari che, in base a un mio soggetto sulla “Storia della bomba atomica”, erano state realizzate da altri. Mi resi conto che era troppo elementare – e noioso per me e per i fruitori – limitarmi a giustapporre interviste e materiale d’archivio a mo’ di centone, seguendo la falsariga cronologica e facendoci sopra una chiacchierata “ben scritta”. Non era questa la strada giusta. Il materiale d’archivio doveva servire innanzitutto a motivare, incalzare, “inquisire” i testimoni intervistati. Non dovevo limitarmi ad arricchire con alcune immagini le risposte troppo lunghe o pleonastiche. Le immagini non dovevano servire ad “alleggerire” le risposte dei testimoni intervistati – rischiando addirittura di distrarre lo spettatore - ma a motivare le domande rendendole esaustive e ... aggressive. E le domande dovevano essere utilizzate anche per presentare il personaggio, il suo contributo alla storia, le sue responsabilità, ma tutto questo solo grazie alle immagini, senza nessun indisponente “intervistatore”. Era la voce narrante ad assumersene il compito.
Teniamo presente un altro fatto: allora non c’era la possibilità di adire a molti archivi giornalistici e cinematografici per procurarsi materiale “fresco” e quindi il materiale disponibile, più o meno consunto e già visto (LUCE, INCOM, ecc.) poteva e doveva essere “rinnovato” usandolo come cifra, come icona evocatrice, in una netta rispondenza fra immagine e commento parlato, con un montaggio serrato che seguisse più le tecniche degli “audio visual aids” che quelle del vecchio documentario di derivazione cinematografica. Non era importante cercare ogni volta immagini nuove per documentare eventi, situazioni, una battaglia, un momento della ricerca scientifica, un incontro politico, un fatto di costume o altro ma anzi era essenziale iterare le stesse immagini – in parte già viste e conosciute -  assumendole come simbolo, come promemoria, come riproposta di un volto, insomma come una sorta di sigla di un fatto o di un personaggio, spesso isolandole dal loro contesto originale, dallo spezzone da cinegiornale.
Si trattava di costruire una sorta di "sceneggiatura a posteriori", per riuscire a comporre, basandomi su documenti filmati e materiali iconografici nonchè sulle interviste girate, non tanto un resoconto piattamente oggettivo sulla “costruzione” dell’atomica quanto un'indagine che chiamasse in causa gli stessi protagonisti: una sorta di "giallo" in 5/6 puntate. Fu un lavoro molto complesso, svolto prevalentemente alla moviola, da cui uscì un tipo di costruzione nuova, che non era nè un'inchiesta giornalistica nè un mero resoconto storico. Accostando fra loro, come in un puzzle, le diverse "pezze d'appoggio" costituite dalle testimonianze-intervista invitavo il telespettatore a mettersi anche lui alla ricerca dei fatti e dei dibattiti che avevano determinato il lancio dell'atomica su Hiroshima. L'inchiesta diventava anche e soprattutto riflessione morale.

E per il commento parlato?

L’operazione andava di pari passo con quella del commento parlato, reso strutturalmente più povero, frasi brevi, nomi propri ripetuti al posto dei pronomi, ritmo e scansioni agevoli per la lettura dello speaker, senza elucubrati tentativi di variazioni “giornalistiche” né tanto meno tentazioni letterarie. Ma icastico, martellante, incisivo. Anche qui senza paura di usare gli stessi termini, di iterare ogni volta i nomi, inseguendo soprattutto la chiarezza.  
Un’inchiesta su fatti e personaggi della storia non doveva essere un programma “di nicchia” ma, al contrario, fruibile anche da un pubblico non particolarmente acculturato.
Fu un esperimento nuovo a cui corrispose un esito estremamente positivo, coronato dalla vittoria al Prix Italia di quell’anno (“Storia della Bomba atomica, 1965).
Avrei adottato sostanzialmente la stessa  formula e lo stesso linguaggio anche nelle mie inchieste degli anni Sessanta-Settanta: “Il caso Rajk”, “L’assassinio di Trotsky”, “Operazione Alsos”, “Jean Jaurès apostolo del pacifismo”, “Marsiglia 1934” ecc. (i testi raccolti nel volume “Giallo storia”, anche se rivisti e adattati per la pubblicazione, possono suggerirne un’idea).
Altra innovazione: il ripudio – per quanto riguarda la colonna sonora - di un commento di tipo… “pastorale”, vagamente sinfonico, insomma di stampo classico, cosiddetto “d’epoca” – adottato di solito in programmi del genere ed ereditato dalla tradizione documentaristica in favore di un commento musicale decisamente moderno: anche stavolta la ricerca di coloriture musicali non avulse dal connubio parola-immagine. Decisi che il   commento musicale non doveva essere necessariamente coevo alle immagini usate ma rispondere alle sottolineature emotive volute dall’autore.

Dopo il Prix Italia del 1965 c’è stato un “secondo passo”?

Eccolo il secondo passo: con alcuni “scarti” delle interviste raccolte per la “Storia della bomba atomica”, arricchiti da materiali d’archivio e da nuovi documenti, compongo “L’enigma Oppenheimer”, a tutt’oggi l’inchiesta più premiata della televisione italiana. (“Leone d’oro” al Festival di Venezia 1964 -  e fu la prima volta che una produzione RAI vinse il Gran Premio per un documentario - , “Premio Guglielmo Marconi”, “Gran Premio della critica internazionale” al  Festival della TV di  Montecarlo, ecc.)  
Julius Robert Oppenheimer, “Mister Atomo”: nutrivo grande curiosità per questo personaggio enigmatico, che aveva diretto il  programma atomico americano e caldeggiato il lancio della bomba su Hiroshima. Accusato di spionaggio e sottoposto a procedimento inquisitorio, nel clima maccartista della “caccia alle streghe”, si era successivamente dichiarato contrario alla costruzione della bomba all’idrogeno, convertendosi, in certo senso, al pacifismo.
Decisi di esplorare il personaggio utilizzando pochi elementi: le testimonianze dirette e i resoconti stenografici, da poco pubblicati, dell'inchiesta che lo aveva visto principale accusato. Inoltre realizzai due nuove interviste: la prima a Boris Pash, capo del controspionaggio a Los Alamos e suo principale accusatore; la seconda ad Haakon Chevalier, che rintracciai a Parigi, l'uomo che Oppie aveva ingiustamente accusato di spionaggio per stornare da sé i sospetti e “salvarsi la pelle”.
Ma nel corso del lavoro avrei voluto citare testualmente alcune pagine del resoconto stenografico dell'inchiesta maccartista del 1954. Come fare? Possiedo soltanto un metro di pellicola d’archivio: il "primo piano" di Oppenheimer davanti alla Commissione d’inchiesta. Ne estraggo una serie di fotografie, che poi "giro" in truka e “monto” seguendo il ritmo emotivo e logico delle battute, fatte recitare da due attori. Insomma una sorta di "animazione per immagini fotografiche". L'impatto sullo spettatore di questo espediente narrativo, abbastanza elementare, va oltre il prevedibile. Forse ho inventato, senza saperlo, un modo nuovo per drammatizzare un documento: ne prenderò coscienza più tardi e farò il passo ulteriore ideando “Teatro Inchiesta”.  
Dunque “L'enigma Oppenheimer” sviluppa ulteriormente le soluzioni adottate per la “Storia della bomba atomica”. Scompare la linea di demarcazione fra racconto e testimonianza diretta. Il racconto della vita dello scienziato coincide con il tentativo di recuperarne la biografia per approssimazioni successive, mediante documenti e testimonianze che, a loro volta, costituiscono punti d'appoggio per proporre nuove ipotesi, lumeggiare aspetti ignorati, aprire nuovi interrogativi. In breve, fare della "ricostruzione" di un personaggio più un "problema" che un "dato di fatto".  

Poi ci  fu la tua invenzione di un nuovo “format”, “Teatro-Inchiesta”.

Nel 1967 creo e metto a punto un nuovo “format”, ma a quel tempo la parola “format” non esisteva e nemmeno i copyright per certificare il diritto d’autore. Quando quel primo ciclo ebbe successo ci fu la corsa per assicurarsene la paternità: dal funzionario tv che l’aveva “adottata” al Direttore di Rete: tutti padri e creatori!
Teatro-Inchiesta (1967): la battezzai così. Una formula per raccontare alcuni momenti della cronaca passata e della storia recente basandomi sui documenti testuali. L'elemento "teatro" - inteso come ricostruzione con  attori - introdotto per drammatizzare e raccontare tali documenti, ma non per ridurli a pretesto per un generico "sceneggiato": il programma doveva restare fondamentalmente un'inchiesta, costruita sulla dialettica serrata fra indagine televisiva e ricostruzione.
Qualche anno più tardi mi accorsi di aver inventato il docu-drama o docu-fiction che dir si voglia. Prima, dopo oppure contemporaneamente ai francesi e agli americani? Vallo a sapere!
La mia formula, oltre tutto, avrebbe aperto nuovi spazi di drammaturgia televisiva scavalcando le regole di compartimenti-stagno, rigidamente invalicabili, dato che vigevano ancora in RAI severe e tassative divisioni fra i vari Servizi (documentari, “prosa”, rivista e così via), altrettante pastoie per chi volesse fare, non già prosa, cinema, documentario, ma quel pastiche di generi che si chiama appunto “televisione”. Teatro-inchiesta rompeva questi opinabili equilibri. Era un’idea semplice: il documento testuale può fornire spunto per un’azione drammatica basata su fatti storicamente verificati, l’azione drammatica può costituire una predella, una pezza d’appoggio per proseguire l’inchiesta con altri strumenti: l’intervista, la ripresa documentaristica, l’iconografia.
Naturalmente “Teatro-inchiesta” era una formula duttile che si avvaleva di volta in volta della tecnica elettronica (prevalentemente) o di quella cinematografica e utilizzava differenti sceneggiatori e registi, ognuno dei quali finiva per interpretarla in modo personale. In alcuni casi si riduceva a uno "sceneggiato storico" con inserti documentaristici,  in altri casi c'era un dialogo autentico e serrato fra l’elemento teatro e l’elemento inchiesta, come ne “L’affare Slansky” scritto e diretto da me. Un vasto ventaglio di realizzazioni, dunque. In cicli successivi e con varie collocazioni la formula sopravvisse sino al 1973.

Quanto ci hai detto conferma la definizione di Carlo Scaringi sul “Radiocarriere tv”: Leandro Castellani“è in certo senso il padre della storia in televisione.”  Ritieni di aver portato un tuo contributo anche allo “sceneggiato” tout court ?

Penso proprio di sì. Forse un modo nuovo di concepire e realizzare uno “sceneggiato storico”. Gli unici precedenti per quanto riguarda questo tipo di sceneggiati erano quelli legati a visioni “tradizionalmente” patriottiche come “Ottocento” di Anton Giulio Majano tratto da Salvator Gotta, o i cicli de “I grandi camaleonti” sulla Rivoluzione francese. Con le “Cinque giornate di Milano” proposi una lettura del tutto inedita del nostro episodio risorgimentale, al di fuori della retorica patriottarda: la visione federalista ed europeista di Cattaneo, il gattopardismo  conservatore dei filosabaudi (Casati & C.), l’estremismo rivoluzionario dei guerriglieri urbani “ante litteram” (Bernuschi). Guerriglia urbana contro esercito austro-ungarico.  Una visione del tutto inedita ma  trascritta nei moduli del romanzo popolare, quello che occupava il prime time esclusivo della domenica, con il dovuto spazio riservato all’immancabile “storia d’amore”. C’è una storia d’amore anche nelle mie “Giornate”, ma strettamente collegata alla vicenda politica e basata su inediti quanto ineccepibili documenti storici.
Tutto questo per quanto riguarda il “contenuto”. Inoltre mi permisi un’incursione sul terreno del “teatro-inchiesta” proponendo, nella quinta ed ultima puntata, la rievocazione dell’episodio di Porta Tosa non già in termini di rappresentazione “oggettiva” ma attraverso le pagine dell’archivio di Cattaneo, lette dagli attori “in borghese” che successivamente si calavano nei  personaggi della ricostruzione-finzione (un espediente “brechtiano” che userò anche nel “Tommaso d’Aquino”, 1975). Uso totale ed esclusivo della cinepresa 16mm per le scene di guerriglia e di azione. Il materiale ripreso con tecnica elettronica (gli interni) trascritto anch’esso sul pellicola: il tutto me lo montai da solo nella mia moviola di Roma. Una tecnica che adotterò anche per lo sceneggiato “Orfeo in paradiso”, dal romanzo di Luigi Santucci. Anche dal punto di vista formale questo lungo film televisivo prende il largo dai tradizionali confini dello sceneggiato, pur avendo l’ambizione di catturare lo stesso vasto pubblico del prime time.
I miei numerosi sceneggiati e film-tv, legati sia personaggi storici che a momento della storia (remota o recente), corrono dunque su questo binario, agli antipodi della cosiddetta biopic basata sulle formule standard della sceneggiatura “all’americana” (i tre atti, la scansione dei plot e così via) che informerà le “biografie storiche” degli anni Duemila. La mia proposta di lettura continua ad essere, per qualche versi, quella dell’inchiesta: mi muovo alla ricerca dei motivi dialettici, l’interesse scaturisce  dai fatti, è nei personaggi e non nella supposta drammatizzazione di avvenimenti e fatti che drammatici già lo sono di per sè.
Così anche nel mio racconto dell’epopea dell’Ossola (“Quaranta giorni di libertà”) rifiuterò il consueto bandierone resistenziale per descrivere in termini volutamente didascalici una Resistenza composita, a più facce, mirando non tanto alla generazione dei “nostalgici”, per un’operazione alla “come eravano”, ma alla generazione successiva, la mia, che di fatto non ha conosciuto e vissuto la temperie resistenziale
In definitiva credo che, anche nel campo dello sceneggiato, il mio apporto sia stato abbastanza rivoluzionario, nelle tecniche e nei contenuti.

E per quanto riguarda i lavori di tua produzione?

Si tratta soprattutto di film per la tv, in una o più puntate. Al di là dei singoli temi e dei singoli risultati mi sembra particolarmente importante sottolineare la novità della formula produttiva, il cui merito debbo condividere con mia moglie, Maria Grazia Giovanelli: un sistema produttivo agile, funzionale, svincolato dalle gerarchie e liturgie del cinema e della televisione, che anticipava la pratica dei film-makers, cioè dei realizzatori-produttori, anche se allora la tecnologia non facilitava certo il compito. Esperienza che le televisioni si sarebbero affrettate a cancellare, consapevoli che il contenimento e quindi l’abbattimento dei costi potesse mettere in crisi nuove operazioni finanziarie e speculative.
Negli anni Settanta-Ottanta si facevano ancora film televisivi seguendo metodi cinematografici vecchio stampo, con la pleonastica suddivisione e moltiplicazione dei ruoli, legati alle necessità di una tecnologia già desueta, con relativa levitazione dei tempi e dei costi. Adottammo un sistema diverso: troupe ridotta ma qualificata e… agguerrita, riprese realizzate quanto più possibile in location esterne, di solito concentrate in un territorio limitato, possibilmente fuori Roma. In questo precedemmo di un paio di decenni l’istituzione delle varie Film Commission. Un metodo di lavoro, frutto della mia esperienza televisiva, che purtroppo non fece scuola. La pilotata levitazione dei prezzi portò alla eliminazione delle produzioni “a basso costo”, come la mia, a favore delle fauci dei cinematografari tardivamente convertiti  al nuovo medium.
Debbo constatare purtroppo che, ,Mentre il cinema si aggiorna nei modi e nelle tecnologie, i metodi odierni della produzione televisiva sono ancora quelli faraonici di un cinema ormai scomparso…

Altre innovazioni che hai apportato?

Direi l’operazione “Fausto di Marlowe”, un modo nuovo di concepire e realizzare un testo teatrale per la tv. Sino a quel momento la cosiddetta “prosa televisiva” correva lungo due direttrici: la ripresa di uno spettacolo di prosa “da  un teatro” usando due o tre telecamere: metodo valido per documentare gli exploit di grandi attori e registi ma legnoso e scarsamente fruibile come proposta televisiva. Un po’ come “fare la foto animata” di una realizzazione teatrale. Seconda direttrice: l’adattamento “in studio” di un testo teatrale, adottando un tipo di recitazione un po’ più destrutturata e l’articolazione in due o più ambienti, insomma una spruzzata di tv sul testo teatrale.
Per il Faust adottai un sistema del tutto diverso: proposta integrale del testo (nella traduzione moderna di Rodolfo Wilcock), ambientazione in location dal vero ma sostanzialmente in un contesto unitario: la cripta e la chiesa di San Vincenzo al Furlo, i paesaggi e gli ambienti di Piobbico e Urbania. Il tutto filmato in presa diretta, avendo cura di non frantumare – in fase di ripresa - ogni singola scena in una serie di brevi inquadrature, favorendo così la concentrazione e la resa degli attori. Inoltre avevo cercato di tradurre l’immaginario elisabettiano in un immaginario italiano: streghe al posto dei maghi, folletti e sparizioni a vista, mamuttomes al posto dei diavoli, insomma un grottesco fra farsa e tragedia. Indici di ascolto e gradimento alle stelle. Era l’indicazione di un nuovo stile (o di un nuovo format?) per far teatro in tv. Ma non ebbe seguito.

Ti si imputa il “peccato” di esserti occupato di troppi generi diversi.

Credo di aver saggiato e sperimentato, sempre con intenti innovativi, le più svariate formule di racconto televisivo, dalla rubrica, al programma didascalico a quello musicale, all’intervista di strada, al programma seriale, allo sceneggiato, ecc. Perché a sedurmi è la possibilità di saggiare e mettere in pratica sempre nuovi modi ed esperimenti di linguaggio. 
In definitiva potrei  qualificarmi un antesignano della continua commistione o ibridazione fra generi diversi  - sceneggiati e telefilm a soggetto,  documentari, interviste, dibattiti ecc. - tutte formule legate a un’era “pre-televisiva” ma che, negli anni Sessanta,  continuavano a resistere. La mia predilezione per la tv come nuovo linguaggio perderà progressivamente terreno negli anni della neo-tv e della tv commerciale dove, anche per ottemperare a esigenze commerciali, assisterò a uno spento rifiorire dei “generi standard” quali la fiction, il talk show, l’inchiesta con interviste, i commenti dei brani filmati da studio, ecc. mentre l’innovazione passerà ai cosiddetti “format”, formule “a scatola chiusa” coperte da copyright, fondamentalmente iterativi e monotoni.
Mio merito – o forse difetto – non aver mai voluto ricoprire o rincorso cercato o rincorso la figura-stampella del conduttore, del mediatore “in campo”, spesso rivelatasi – buon per loro – un mezzo per promuovere al ruolo di indispensabili comunicatori dei modesti quanto grigi funzionari-giornalisti. A me avevano insegnato a suo tempo che l’autore deve mettersi sempre tra parentesi, ossia “fuori campo”, evitando sciocche esibizioni personali.
Non ho mai curato la promozione di me stesso anche se – modestia a parte – forse ne avrei avuto tutti i numeri. Ho cercato invece che le cose, i fatti, il linguaggio delle immagini e delle parole parlasse da solo e fosse in grado di catturare lo spettatore in virtù della sua chiarezza, incisività, aggressività forse. Linguaggio delle parole e delle immagini insomma e non passerella dell’autore.

E poi?

E poi la storia è lunga, ma l’essenziale credo di averlo già detto. E poi ci sono le mie incursioni nel cinema, nello sceneggiato radiofonico, nello spettacolo musicale. E poi la partecipazione al serial, i miei contributi teorici alla massmediologia, la mia opera di docente, i miei conati di scrittura… Nonché tutto quello che ho in animo di fare e che farò…
Certo non sarò ricordato come un pioniere della tv, all’altezza di Renzo Arbore, di Pippo Baudo  e delle sorelle Kessler, ma il mio deciso, fattivo e…indispensabile contributo al linguaggio televisivo credo di averlo dato. Servano questi sommari appunti a qualche volonteroso futuro saggista e, perché no, a qualche operatore della tv desideroso di sapere da dove spuntino certe acquisizioni poi divenute terreno comune. 
Se e quando si scriverà una “vera” storia della televisione – cioè mai – forse il mio apporto sarà seriamente rivisto e valutato. Per il momento dobbiamo accontentarci di un mio libricino, edito da Studium nel 1995 e poi di nuovo nel 2002, “La Tv dall’anno zero”.  


(intervista raccolta da Floriano Pivani)
© Prod.TVC 2015

venerdì 20 novembre 2015

MARGHERITA PUSTERLA di Cesare Cantù




Nell’arco di un decennio (1930-1940) vedono la luce i tre esempi più celebri del “romanzo storico lombardo”, “Marco Visconti” di Tommaso Grossi, “Margherita Pusterla” di Cesare Cantù e “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Tutti figli più o meno illegittimi del filone storico-avventuroso varato in Gran Bretagna dal prolifico Walter Scott. Fra i tre, il libro del Manzoni prende decisamente le  distanza dagli altri due. Innanzi tutto per il linguaggio: evidentemente Grossi e Cantù non hanno “risciacquato in Arno” i loro scritti. E poi per la presenza nel capolavoro manzoniano di un mondo “proletario” assente negli altri, soprattutto impegnati a narrare le avventure e le disavventure di nobili e cortigiani alla corte viscontea, che oltre ad avere un biscione sullo stemma, alberga numerose vipere. Abbiamo riletto “Margherita Pusterla” di Cesare Cantù, una storia per più versi affascinante: c’ è un cattivo che più cattivo non si può, ed è Luchino Visconti, una giovane sposa che più bella e buona non si puo’, ed è Margherita. E inoltre uno sposo fragile e vagheggino, un perverso uxoricida, una serie di intrighi politici, false accuse e pseudo-processi, figli ripudiati e poi inseguiti, un giudice e un boia che usano la mannaia a sproposito, il tutto basato peraltro su un’ineccepibile documentazione storica. Curioso come questi testi ottocenteschi finiti nel dimenticatoio e resuscitati dai recenti ebook, il più delle volte disponibili gratuitamente, ci facciamo rimpiangere una narrativa, colta ma soprattutto popolare, molto più ricca e meno stitica della contemporanea. Sarebbe un’operazione senza dubbio discutibile  quella di rivedere questi testi con un’ottica moderna, cioè operando alcuni tagli di brani pleonastici per renderli più accessibili? Qualche anno fa tentai l’operazione su un romanzo storico (“Il bravo” di Fenimore Cooper) traendone una sceneggiatura che giace tuttora inedita e ignorata nel mio capace cassetto. Ma a parte questo volonteroso conato personale vorrei concludere che, se l’inflazionato e un po’ “detestabile” romanzo del Manzoni ha guadagnato l’immortalità, le altre due opere citate non sono certo da gettare all’ortiche: in fatto di offerte di lettura, anche popolari – si pensi a Carlina Invernizio e alla Marchesa Colombi, per fare due esempi – l’aborrito Ottocento la sapeva lunga. 
                                                                                                  (Leandro Castellani)

mercoledì 18 novembre 2015

LEANDRO CASTELLANI RACCONTA LA STORIA




Autore e regista di numerose inchieste e sceneggiati su avvenimenti e personaggi della storia – “E’ in certo senso il padre della storia in televisione” lo ha definito Carlo Scaringi sul Radiocorriere.tv  -  Leandro Castellani ha deciso di raccogliere le sue testimonianze d’eccezione in una serie di affascinanti e coinvolgenti e.book su Amazon (formato Kindle):
                                                                  
Tre due uno niente, storia segreta della bomba di Hiroshima

“Dopo Hiroshima”

 Norimberga, processo al processo

 Operazione Alsos, la vera storia dell’atomica di Hitler


Documenti indispensabili per scoprire le tracce nascoste della nostra storia recente, basati sulla viva testimonianza degli autentici protagonisti,

venerdì 23 ottobre 2015

LA CONTESSA DI KAROLYSTRIA



Nella prima parte del  mio “Umorismo e comicità”, rassegna degli umoristi del Novecento, ho citato come precursori il giornalista Luigi Arnaldo Vassallo, nome de plume Gandolin, autore di scenette buffe quanto prevedibili nonché dell’epopea di poveri travet, e Carlo Lorenzini, in arte C.Collodi, padre del personaggio più illustre della narrativa italiana, Pinocchio. Mi accorgo tardivamente di aver obliato Antonio Ghislanzoni (1824-1893). Come?! Tacciare di precursore dell’umorismo novecentesco il librettista di Giuseppe Verdi, il padre della Celeste Aida (“O terra addio, addio valle di pianti…”) ? Non si tratterà mica di quel Ghislanzoni che, nella sua carriera, compose una cinquantina di libretti d’opera, oltre a fare il paroliere per Ponchielli e Puccini, raggiungendo il top personale proprio con l’Aida del musicista di Busseto?.. E invece sì, proprio lui. Un umorista che nel suo romanzo forse più noto – almeno all’epoca – cioè “La contessa di Karolystria”, narrò l’avventura tragicomica di una nobildonna malandrina travolta in mille peripezie e imprevisti: fuga dal consorte pazzoide, scontro con banditi, travestimenti vari, incontro con gli zingari e con l’uomo più grasso del mondo, caccia all’erede di re Finimondo, con contorno di titolati vari, preti, porporati, cavalli, profittatori e così via. Penna leggera, umorismo non volgare, frequenti ammiccamenti al lettore, direttamente apostrofato qua e là in tono semiserio. Insomma un’operetta da ripescare per una lettura in piacevole allegria. E bravo Ghislanzoni ! E gli sventurati Aida e Radamès? A quelli ci ha pensato Verdi.… 
                                                                                                  
(Leandro Castellani)

giovedì 22 ottobre 2015

CENERENTOLA



Partito con lo shakespeariano “Enrico V”, di cui fu debuttante regista cinematografico nonché interprete, planato attraverso un ottimo “Amleto” in abiti ottocenteschi, dopo prove discontinuem talora ragguardevoli e talora decisamente azzardate, Kenneth Branagh è atterrato nei territori delle premiata ditta Disney per dirigere questa “Cenerentola”. Da Shakespeare a Perrault, un bel salto, non c’è che dire! Il film s’inquadra in quel filone abbastanza recente reso praticabile e appetibile dallo straordinario  sviluppo della tecnica digitale e dalla nuova era dei super-effetti speciali. Un filone che ha permesso la fioritura di un nuovo genere, la fantasy, e la riesumazione di molti “classici della fiaba”, dalla Bella addormentata a Biancaneve, a Cappuccetto Rosso, alla Bella e la bestia e così via, ogni volta con un abuso di sper-effetti e la partecipazione di grandi dive, da Angelina Jolie a Charlize Theron,  in veste di supercattive.
Anche in questa “Cenerentola” la grande supercattiva non manca ed è Cate Blanchett, come non mancano gli effetti speciali a rendere possibili le magie della Fata Madrina (Helena Bonham Carter) e la moltiplicazione delle masse.
Ma il film ha almeno due pregi: quello di aver prestato fede alla fiaba, con molta fedeltà e appena un pizzico d’ironia, e quello di non aver usato gli immancabili “effetti speciali” a fini …sovversivi, da assurdo videogioco. Merito di Kenneth Branagh, senza dubbio, ma anche – vorremmo dire soprattutto – di quel grande creatore di contesti scenografici che è il nostro Dante Ferretti, che ancora una volta dà concreta realtà a un esuberante mondo fantastico, ma trattenuto nella sfera del verosimile: quel palazzo reale grave, imponente e sfarzoso, quella scalinata un po’ corrosa dal tempo, la bicocca di Cenerentola – e quella straordinaria soffitta – in cui si mescolano ricordi e sogni. Un mondo di paesaggi, architetture, arredi, rutilante e immaginifico a cui ben si sposano dei costumi chiassosi ma non irritanti, a colori sgargianti… Dunque una rilettura piacevole, con un omaggio ai “topini” della vecchia versione a cartoni offertaci molti anni fa dalla stessa premiata ditta.  E Cate Blanchett? Fa la cattiva, come da copione.

mercoledì 21 ottobre 2015

Leandro Castellani PASSIONE le grandi storie d’amore in rima




Siamo tutti più o meno travolti dalle passioni, quelle di serie A ma anche quelle di serie B e C  e fino alla Z: per una squadra di calcio, una collezione di sottobicchieri da birra, la ricerca delle pizzerie, la visita ai musei o altro. Ma siamo tutti sfiorati dalla grande passione, quella delle storie d’amore immortali, esaltate dai poeti – primo in classifica Dante, seguito a ruota da Shakespeare – oppure dai pittori, dai romanzieri, dai musicisti, dai cineasti... Questo libro di poesie - o chiamatele filastrocche che è meglio - ne illustra ventidue, assortite fra Bibbia, romanzi celebri, poemi epici, tragedie, melodrammi lirici, e lo fa in modo irriverente e con il dovuto umorismo: ci sono i precursori Adamo ed Eva e poi Paolo e Francesca, Giulietta e Romeo, Renzo e Lucia, Cesare e Cleopatra, Sansone e Dalila, e tante celeberrime opere liriche, dalla Traviata a Rigoletto, da Carmen alla Cavalleria rusticana… Ad ogni poesiola segue una nota, un po’ dotta e un po’ divertiva: le due cose possano anche andare assieme. Un libretto da leggersi in un soffio, per confermare le nostre passioni  e divertircisi sopra…

L'UNICO PAPA' CHE HO



Sabato 24 ottobre, nel delizioso scrigno romano dell’Arciliuto, Donatella affronta da sola, senza il consueto apporto delle sue valide “Zebre a pois”, il repertorio di suo padre, un repertorio molto meno frivolo di quanto suggeriscano i titoli  - dal “Giovanotto matto” alla “Zebra a pois” - frutto di un’erudizione jazzistica e di un’ispirazione autentica a cui le mille facce di un’artista eclettico come Lelio Luttazzi, compositore, jazzista, pianista raffinato, attore e showman, hanno fatto addirittura velo.
In attesa dell’esibizione di Donatella vale la pena di rileggere le pagine, volta a volta argute, struggenti, schive e sincere, che ella ha dedicato a suo padre, “L’unico papà che ho” : “…sono appunti, pochi ricordi ma vividi, ricordi di risate, ricordi di piacevolezze fregenistiche e leggere, in cui forse il Lelio “leggero” galleggia per anni tra musica, vino buono benessere feste fan, nascondendo il tormento che quel Lelio che ama Amstrong ha sempre sofferto, proprio come soffre chi, sensibile e amante del bello, è costretto a confrontarsi con le brutture (tante) della vita.”
Un libro prezioso, leggero ma non futile, divertente ma anche struggente, ironico e disincantato, un po’ come la musica di Lelio che Donatella si accinge ancora una volta a far rivivere con la sua bella voce di duttile vocalist. Un libro ed un concerto da non perdere!