Il mio amico Ugo G. Caruso ha battezzato “telesaudadismo” un suo spazio su FB consacrato alla rivisitazione degli irrepetibili anni d’oro della televisione italiana, con annessa nostalgia. Essendo stato uno dei personaggi – “fondamentali” (?) quanto parzialmente ignorati - di quell’epoca ahimè irrepetibile mi sento in diritto-dovere di prendere la parola. Che ci stavamo a fare, noi della seconda generazione, fra i grandi autori di quella precedente? Cosa avevamo da dire e come riuscivamo a farci largo fra registi già solidamente affermati e consolidati, Majano, Bolchi, Ferrero, D’Anza, Blasi, Landi e similari? Dovrei parlare per me e per pochi altri nomi (cito a caso: Antonello Branca, Giuseppe Fina, Giacomo Battiato, Ugo Gregoretti, Silvio Maestranzi, Carlo Tuzii, Liliana Cavani in ordine sparso) non uniti in particolari congreghe nè da evidenti sintonie, ognuno per suo conto, ma tutti parte di questa singolare avventura. Eravamo una sorta di “nouvelle vague televisiva”, tenuta inizialmente un po’ in disparte ma presa ben presto nella dovuta considerazione dai cosiddetti “maestri di tv”. Personalmente, durante il mio stage in Rai, ammiravo tutti i miei grandi auspicabili futuri colleghi ma stimavo particolarmente Giacomo Vaccari, il più giovane fra loro, impegnato a trovare curiose e talvolta spericolate mediazioni fra le vecchie formule e i nuovi tentativi del narrare televisivo. Vaccari avrebbe finito la sua carriera, e purtroppo prematuramente anche la vita, con uno sceneggiato girato su pellicola, il quasi dimenticato e sicuramente sottostimato “Mastro Don Gesualdo”.
Quanto a me, catapultato nel mondo degli sceneggiati, proveniente da un’esperienza documentaristica e di critico cinematografico, ma da sempre innamorato di cinema, cercai d’introdurre e varare da subito modi per qualche verso “alternativi” di racconto. Cercando di usare le telecamere un po’ come fossero cineprese, con movimenti continui, rapidi nella misura massima consentita dall’impiego di mezzi tecnici ancora mastodontici. E poi, fornendo sin dal primo esempio di “Teatro-Inchiesta” - formula che avevo escogitato (“1898, processo a don Albertario”) - modi diversi di racconto: come l’espediente delle interviste immaginarie, dedotte dagli articoli giornalistici del prete, l’espediente di usare riprese ambientali attuali (Milano, Finale Ligure ecc.) anziché simulare riprese d’epoca o attingere al repertorio iconografico, ecc... E soprattutto ideando e varando la formula “Teatro-Inchiesta” – il termine format non ancora inventato - che consentiva di unire la ricostruzione, drammatizzata con attori, di personaggi e momenti cruciali di un passato più o meno prossimo o remoto, con l’incontro con documenti autentici, testimonianze, materiale documentaristico e iconografico, inaugurando così una dialettica narrativa squisitamente televisiva. Commistioni di linguaggio ma anche di tecniche, ad esempio l’uso del duttile e maneggevole 16mm in luogo del pleonastico 35 nei numerosi “inserti filmati”. Più tardi varai l’espediente – criticato dai puristi - di trasportare su pellicola tutte le riprese elettroniche da Studio, dando la possibilità di effettuare un montaggio più strutturato e nervoso, senza tempi morti, senza il tassativo impiego del “campo-controcampo”, senza pause e piani d’ascolto talora estenuanti. Insomma portare un po’ di cinema nella tv, ma senza tradirne lo spirito e inoltre utilizzando il prezioso apporto della più autentica tradizione attorale teatrale. Tutte innovazioni che talora sconcertavano la vecchia guardia ma che erano legittimate dal buon esito d’ascolto e di gradimento. Del resto gli autori di questa sorta di “nouvelle vague televisiva” provenivano dalle più diverse esperienze e – novità assoluta - passavano con vivace disinvoltura da un’esperienza lavorativa all’altra. Gli attori veri, quelli che una volta emergevano dalle scuole e dalla gavetta, supportavamo con entusiasmo tali “novità”, almeno in parte, alternative: non più lunghe scene statiche come tanti atti di un copione, non più estenuanti “piani d’ascolto”, specialità del bravo Majano, dal quale peraltro c’era molto da imparare e molto imparai. Non più frettolose riprese in campi-medi un po’ generici o in composti ma ariosi “primi piani”. Sia il sottoscritto che alcuni ardimentosi scoprimmo inoltre la duttilità e il mestiere di alcuni validi attori, relegati sino ad allora nel ruolo di doppiatori, magari eccezionali.
Certo, i “grandi” erano più abili ad accaparrarsi lavori prestigiosi e di sicuro funzionamento. Ma noi eravamo più disposti a rischiare e molto apprezzati da una generazione di attori che giudicavano ormai desueto il “teatro all’antica italiana” e la tv che ne faceva le veci. Naturalmente i nostri sforzi venivano, più che ignorati, addirittura schifati dal cinema e da suoi accoliti, anche da quelli mediocri. Il cinema di serie A, B e Zeta non era ancora andato all’arrembaggio della misconosciuta televisione, proprio negli stessi anni in cui il cinema americano traeva vantaggio dalle nuove esperienze e dai nuovi autori.
Ci tenevo a distinguere la figura di alcuni registi, per qualche verso accomunati dall’interesse per nuove esperienze di linguaggio, all’interno di un panorama oggi giustamente rivalutato e stimato da una categoria di più attenti storici e saggisti dello spettacolo. Ma si sa, la storia della televisione è stata sino a pochi anni fa – e in parte sembra continuare ad essere - più lacunosa e altrettanto sommaria e incompleta di quella degli etruschi e della loro comparsa sull’italico territorio.
Leandro Castellani
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