mercoledì 24 aprile 2024

LEANDRO CASTELLANI - LA MIA GUERRA

 


Premessa alla prefazione

Sono andato a ripescare le pagine, scritte in momenti o anni lontani fra loro,  che riguardano i ricordi di un “quasi bambino” - a Roma direbbero un “regazzino” di dieci anni - a testimonianza discreta, decisamente minore o minima, di come la guerra possa incidere e deturpare anche i momenti più sereni di un’infanzia. Li riesumo e ripubblico, oggi che i venti di guerra minacciano di spirare di nuovo fra l’indifferenza o addirittura l’incosciente aspettativa di chi - politici, giornalisti eccetera - ne parla come di un’ineluttabilità, tutto sommato, ammissibile, se non augurandosi quasi che questa terribile prospettiva possa farsi di nuovo realtà. E’ l’unico modo che ho, da vecchio novantenne, per ricordare l’abbominio e l’inumanità della guerra, anche quando ci si limiti a rievocarne una frangia - tutto sommato - secondaria, ma che tale non fu per me!

 

1. PREFAZIONE

Il problema del cosiddetto incipit non l’ho mai avuto. Come si comincia? Appoggiando il dito su un tasto a caso e  andando avanti imperterrito sinché l’imput non si arresti e mi accorga di aver riempito circa trenta righe, corpo 14 e spazio uno. La fantasia non mi ha mai fatto difetto. Secondo alcuni ce ne ho anche un po’ troppa, comunque più che sufficiente a risparmiarsi noiose ricerche su PC o in biblioteca, schede da riempire, dati da collazionare e personaggi da inseguire attraverso le loro vicende. Più facile inventate o perlomeno integrare. Ma fra i miei ormai numeroso scritti forse fa ancora difetto un romanzo, con vicende inventate e personaggi altrettanto inventati, a partire da zero, lasciando perdere i ricordi e le immagini di persone incontrate e conosciute. D romanzi veri e propri, concepiti e stesi nel cosiddetto modo tradizionale, ne ho scritti pochi, e quasi sempre si tratta di storie dove non seguo pochi protagonisti ma un gruppo o una serie di personaggi riuniti da un caso accidentale, un luogo, un’età, una città. Così ne “Le vie degli amori”, “Veleni di paese” e “Caschè”.

 

2. IL PILOTA

Stamattina, o per meglio dire questa notte, durante un duro risveglio a fine corsa melatonina, mi è venuta un’idea, Più che un’idea un proposito, un’ispirazione. Questo: andare a rileggermi nella mia ponderoso autobiografia la pagina – a meno che non esista ma, se ben ricordo,  mi sembra proprio di sì - dove narro un episodio del mio passato, quello di giovanissimo testimone diretto di un episodio collocato nei giorni quasi finali del cosiddetto secondo confitto mondiale: un aereo della RAF perde quota e si abbatte al suolo, a meno di un chilometro da casa mia. Sbalzato dalla carlinga il pilota, morto. Chi  era quel pilota? A distanza di ottant’anni mi accorgo che l’avvenimento, uno degli episodi più piccoli e, se volete, insignificanti dello scontro chiamato guerra, rimase scolpito a lungo nella mia memoria come nel ricordo dei molti – paesani, contadini, sfollati – che avevano seguito l’episodio ed erano corsi a vedere quel moncone abbattuto e il cadavere riverso a terra. Constatando come ancora – a  distanza di tanti anni, i ragazzi divenuti uomini o gli uomini divenuti vegliardi -  si chiedessero il perché e percome. Un paio di ragazzi divenuti adulti si sarebbero messi addirittura a cercare notizie sul pilota morto, individuandone nome, età, origine e continuano ancora a parlarne, citando ricordi familiari, dei genitori, dei nonni. Quel piccolo episodio di guerra aveva preso il posto di ricordi ben più drammatici e toccanti.

Negli anni lontani nei quali mi accingevo, putando su fogli locali e pubblicazioni fantasma, a inventarmi scrittore, anni prima che m’inventassi regista, avevo composto un piccolo racconto basato sulle mie esperienze di guerra, nell’illusione di assurgere prima o poi nel novero degli scrittori famosi, perlomeno localmente. Si chiamava “Gente sul greto” ed era il racconto dei sette giorni, gli ultimi del “passaggio del fronte”, in cui la mia famiglia, cacciata di casa da una pattuglia di Esse Esse, aveva cercato salvezza dentro “rifugi” scavati sull’alto greto di un torrente che si chiamava   anzi, che si chiama tuttora – Arzilla. Quel racconto, scritto con tanta impegno e passione, evidentemente non incontrò il plauso dei peraltro sporadici lettori e giacque manoscritto sino a quanto molti anni dopo, stavolta invitato a scrivere per un libretto locale, non volli pubblicarcelo di prepotenza,

 

 3. GENTE SUL GRETO

Questa è la cronaca dei giorni quando la guerra passò da noi che, fuggiti da Fano,  avevamo trovato rifugio nella casa della Selva, degli ultimi giorni della mia guerra, quando i tedeschi ci fecero abbandonare le case e fuggire sul greto del fiume, nascosti fra il fitto canneto e le alte sponde di creta sabbiosa

Quella mattina, come da tempo ogni mattina,  tornarono i B.29 con il loro carico di bombe da seminare sul ponte del Metauro. E insieme a loro i più agili caccia-bombardieri. Diluviò il fuoco. Poi, quando finì l’inferno, forse fui il primo a scorgere in fondo al campo, a ridosso della scarpata, un ammasso di ferro che fumava. Era un aeroplano inglese abbattuto dalla contraerea tedesca appostata nelle piazzole sul colle. Ma in principio sembrò a qualcuno una grossa bomba inesplosa a cui sarebbe stato pericoloso avvicinarsi.

I primi ad accostarsi furono due prigionieri russi che i militari tedeschi, acquartierati in zona, tenevano con loro come inoffensivi collaboratori in razzie e sopraffazioni. Si buttarono a saltelloni, giù  per i greppi, con i loro camiciotti grigi, per frugare fra i ciuffi di sterpi e i grovigli di rovo attorno a quel macigno fumante. Il più alto dei due  – quello con la faccia da connivente dei loro carcerieri, che sapeva rubare il vino come un tedesco e che, nel corso delle razzie, si divertiva a strillare parolacce in italiano  per far vergognare le donne -  fu il primo a scoprire il morto. Doveva essere il pilota, sfregiato dai rami dell’albero contro cui aveva cozzato l’aereo prima di abbattersi là. Il russo gli frugò addosso, gli tirò fuori  il portafoglio, poi gli strappò dal polso l’orologio. Il secondo russo riunì in un fascio il paracadute di seta gialla, mezzo aperto a girandola sul campo, ma ancora legato alle spalle del morto. So che poi ci fecero fare delle camicie da una donna degli sfollati.

Quando i resti dell’aereo smisero di fumare - o forse prima -  corremmo a guardare da vicino. Non so come, ma la voce dell’aereo abbattuto e del pilota morto, si era subito sparsa per le case della zona e fra le fattorie vicine. Di lì a poco lo sapevano tutti, per chilometri. E arrivarono a decine e decine, senza paura che gli amici e colleghi del morto -- inglesi o americani che fossero - tornassero a vendicarlo mitragliando. I resti dell’aereo erano sparsi attorno al grosso fusto spezzato, acre di petrolio, e avevano disegnato una gora nera sulle stoppie del grano. Da un lato del moncone era visibile lo stemma della RAF e il numero,: si trattava di uno “spitfire” da caccia, di quelli che venivano a difendere i pesanti quadrimotori con le bombe, le “fortezze volanti” come le chiamava la gente. E gli “spitfire” erano gli aerei più piccoli ed agili che ricamavano intorno a quei bestioni strani e imprevedibili volute, si abbassavano sputando fuoco, giocavano con le nuvole a sfioccarle in bava bianca, s’impennavano, picchiavano inabissandosi per i gorghi dell’aria per sfuggire alle contraeree. Ma quello era caduto a sfasciarsi sul campo.

Arrivò gente come a processione. Per il popolo dei contadini e per quello altrettanto numeroso degli “sfollati” dalla città quell’aeroplano smembrato sembrava un tesoro da saccheggiare, un po’ per uno: chi asportò un pezzo chi un altro, spesso senza neppure saperne l’utilità o il perché, le gomme, le pale dell’elica, i rivestimenti di lamiera, tutto, brano a brano. Vennero anche due frati camaldolesi dal convento di Montegiove a insudiciare il loro saio bianco con la morchia del relitto,  ripartendo poi per la salita, ognuno con un brandello d’aereo sulle spalle.

Il morto lo lasciarono là, appoggiato alla scarpata, con le mosche che gli ronzavano addosso e andavano a posarsi sulle chiazze di sangue pesto e rappreso della fronte. Un contadino pietoso lo coprì con un sacco, di quelli da concime, di tela grezza e a trame larghe, ma poco dopo i bimbi lo scoprirono di nuovo per vedere se la morte di un inglese fosse uguale a quella di un italiano, del loro padre e del loro fratello, o se era più aristocratica, una morte da vincitore. E i grossi tafani da cavallo tornarono a girare attorno alle tempie del morto.

Da dietro il greppo erano spuntate due figurine, di quelle da tempo di guerra, sfollate da qualche casa di coloni: una ragazzetta dagli occhi spiritati che guardava il morto e rideva ammiccando verso la sua piccola amica, una bambina dalle spalle strette, col viso di vecchina. Le avevo viste altre volte, sempre insieme, a strisciare e ridere sull’erba del greto, lontane dall’altra gente, provandone come un’impressione di fastidio. Non sapevo dove stessero o se avessero parenti da qualche parte, le intravedevo ogni tanto  nascoste fra le canne a ridere insieme, o nel torrente a lavarsi le gambe con la mota. Ora la ragazza stava grattandosi una spalla mentre indicava il morto alla bambina, “Era un bel giovanotto, è mezzo nudo, sotto la tuta non si ci deve aver niente”, e rideva stirando le labbra.

Quel morto non  fece piangere nessuno. Forse in altri tempi, quel colono che aveva coperto il morto con un sacco era stato uno di quei genitori che si scoprono il capo al passaggio del feretro, uno di quei padri che tengono i figli piccoli fuori dalla porta durante le visite ai defunti e dicono loro: “E’ brutto, non si può guardare!” Ma i bimbi del greto, ora, sollevano il sacco per guardare sotto e, a un involontario momentaneo contatto con il corpo del pilota morto, provano solo un’impressione di freddo.

Era solo un cadavere, spezzato e sfregiato, come il suo apparecchio dalle ali grigie. Forse era stato lui, poche ore prima,  a mitragliare quel ragazzo mio amico che, al rombo degli aerei, si era nascosto dietro un covo, tagliandogli la faccia all’altezza delle labbra. Era successo a un chilometro di lì e appena un giorno prima.  Il rombo degli aerei lo aveva colto mentre stava vicino alle reti per acchiappare gli uccelli, tese su un rigagnolo d’acqua del torrente. A quel rombo, ingigantito dalla eco fra le alte sponde del fiume, quel mio coetaneo aveva provato il desiderio irrefrenabile di correre da sua madre, intuendo forse che, se faceva tanto di raggiungerla nel rifugio  sul greto, sarebbe stato sicuro fra le sue braccia e non avrebbe più temuto nulla. E quando un aereo aveva puntato nella sua direzione si era illuso che un mucchio di covoni di grano bastasse a nasconderlo.

Due giorni dopo Giuseppe, il padre del ragazzo mitragliato sul campo di grano, aiutò mio padre a rimuovere e sotterrare il pilota inglese, senza neppure bestemmiarlo. La faccenda era andata per le lunghe perché il comando tedesco della zona non voleva dare il permesso di seppellirlo. Mio padre Aldo, che parlava anche per gli altri, cercava di convincere il capitano:

-         E’ un morto, va seppellito…

-         Ha ucciso donne e bambini…

-         Ma è un morto…

Nessuno dei due fu capace di trovare altre giustificazioni: rimasero entrambi attaccati a quelle due formule da ripetere più volte, senza capirsi - Va seppellito, ma ha ucciso, ma è un morto, ma ha ucciso -  due mondi senza nulla in comune, quello dei soldati e quello degli uomini. Alla fine il capitano aveva dato il permesso d’inumarlo provvisoriamente.

Il giorno dopo mio padre, con Pietro e un altro, fecero la buca profonda e poi stesero il corpo sopra un sacco: ma la quando ne sollevarono i lembi, la tela logora non resse e si squarciò nel mezzo: il cadavere cadde bocconi per terra, semisvestito per la divisa a brandelli. Qualcuno si segnò. Sul tumulo di terra grassa mio padre mise una pala d’elica, l’unica rimasta là, lucida, bella contro il sole. Ma il giorno dopo ci passò sopra una camionetta tedesca, l’elica rotolò giù dal tumulo e affondò nella mota e, dopo la prima acqua, anche il tumulo scomparve.

Col tempo l’erba è rinata sulla rosa di bitume. Ora non lo sa più nessuno dove è caduto l’aereo e dove fu seppellito il cadavere. Solo la cima del pioppo, spezzata e combusta, ricorda che è tutto vero.

P.S.  Non ero più a Fano invece quando, diversi anni dopo, vennero a rimuovere il cadavere per dargli definitiva sepoltura. Grazie al libro di Gastone Mazzanti e alle ricerche di Daniele Mazzanti, oggi ne so di più: il giovanissimo pilota – aveva ventidue anni - era il sudafricano Hugh Gater, appartenente al 450° squadrone della RAF. Conduceva un Kittyhawk P40 australiano. Riposa nel cimitero di guerra di Tavernelle di Ancona.

 

4. LE ESSE ESSE  

Delle Esse Esse, feroci aguzzini del prossimo, vinto, sconfitto e messo sotto i piedi, se non al muro, si è detto e si conosce tutto. Ma gli occupanti, gli invasori, i nemici di tutte le razze,  fedi e nazioni, si comportarono sempre così ? Dilemma al quale è difficile rispondere. Certo, le SS naziste sono state in qualche senso un vertice – oggi si direbbe il “top” - irraggiungibile. Qualche tempo fa ho trovato  da qualche parte le foto inedite di militari italiani alla conquista dell’Africa, dalla seconda metà degli Anni Trenta, con relativo eccidio di nativi. Cose di un secolo fa. I militari nostrani per la prima volta a contatto con i selvaggi africani, nativi di quel continente ormai completamente occupato – o bonificato che dir si voglia -  dalle civilissime nazioni d’Europa, come Francia, Belgio, Germania, Olanda, Inghilterra eccetera eccetera. I nostri militari giunsero per ultimi, s’impadronirono di quel lembo di terra africana più prossimo alle nostre coste, dove in tempi remoti era stanziata l’odiosa Cartagine - terra delenda, cioè da distruggere, a detta di Catone e dei suoi civilissimi contemporanei - e successivamente terra del fasullo Impero d’Etiopia  con il nessuna nazione civile aveva voluto avere a che fare o nutrito interesse.

Ma quelli erano selvaggi, chi li conosceva? Si era preso la briga di conoscerli, se non di frequentarli, la generazione dei volonterosi contadini digiuni di terra, migranti  al seguito dei fanti, per bonificare e rendere fertile quel lembo prossimo d’Africa, che di fatto galleggiava su un mare di petrolio ma del tutto privo di cavoli nostrani e altri ortaggi. Un avventuroso aeronauta italiano, tale Italo Balbo, fece edificare strade. Non solo? Fece rimettere in piedi quelle enormi pietre inutilizzabili e abbandonate che in realtà costituivano le vestigia del “nostro” grande impero di Roma. E agricoltori, artigiani, commercianti e impiegati scesero in Africa dove si acclimatarono ben presto, imparando a rispettare quei loro simili di pelle nera che forse non erano selvaggi ma solo ignoranti. Ma anche, alla bisogna, a servirsi di loro.

Quando, bambino quasi in fasce o tre-quattro anni dopo, i miei genitori mi condussero a Roma, in visita alle mie due zie che abitavano nella città eterna, vidi per la prima volta per la strada “un negro”, un essere proprio come me soltanto un po’ -  anzi, molto - diverso. Pensa – mi informava mio padre – hanno addirittura formato uno squadrone di negri buoni, nostri alleati, che si  chiamano Ascari e vanno in giro sui cammelli. Del resto uno dei miei numerosi cugini, molto più grande di me, ci lavorava già in Africa e ci si trovava molto bene. In una dei suoi saltuari ritorni in patria ci aveva raccontato la storia di un suo compagno di lavoro che si era addirittura innamorato di una “negretta” e avrebbe voluto sposarla e portarla in Italia. Ma poi un ultimo ravvedimento: e se gli fosse nato un figlio “negro”? Come avrebbe fatto a farsi una vita e prosperare in una terra di “bianchi” il suo degno erede? E rinunciò all’amore. Cent’anni fa, appena cent’anni fa.

Intanto dall’Africa Orientale Italiana, l’AOI, giungevano le banane. Frutto raro, godibile e introvabile altrove. Ma nel Ministero delle Colonie, collocato dove attualmente c’è Ministero delle Finanze, su via XX settembre, ne arrivavano a “caschi”, e un certo impiegato, che aveva affittato una camera nell’appartamento delle mie zie, ne elargiva anche alle cortesi affittuarie. Le quali zie romane, tornando ogni anno nella loro e nostra Fano per la stagione dei bagni, ce ne portavano qualcuna, ma senza casco. Una leccornia da gustare solo in piena estate.

Debbo considerarmi fortunato perché i miei genitori non mi hanno mai istillato, sin dalla più tenera età, la paura del “diverso” e neanche la diffidenza nei suoi confronti. Non ho considerato “diverso”, per razza, religione, consuetudini e comportamenti, mai nessuno. Forse perché l’unico autentico diverso sono sempre stato io.

E vorrei ricominciare dall’inizio. È la guerra che ci rende cattivi o quelle “Esse Esse” erano solo il top o uno dei numerosissimi top?

                                 

5. PAPA’ IN FUGA

Il “fronte si avvicina”. Ancora una volta i tedeschi spuntano da dietro la quercia. Ma stavolta non sono i soliti in cerca delle uova e del vino, il piccolo sergente anziano con i prigionieri russi come aiutanti. Stavolta sono almeno una decina, e cattivi. Non più “Ai, zwai, ai, zwai” ma “raus” e minacce di “kaput”.

Noi di famiglia e i coloni della casa vicino abbiamo un’ora di tempo per abbandonare le case. Stipiamo il biroccio, cercando di non far vedere tutto ciò che ci viene caricato perché i tedeschi non si affezionino prematuramente a questa o quella cosa. Papà, che è di temperamento focoso, strilla e si arrabbia. Strappa dalle mani di un soldato la bicicletta di cui quello si è già impadronito: devo portarci su mia mamma, che è vecchia!

Nella concitazione i contadini, contravvenendo a un’abitudine atavica, attaccano al biroccio i buoi - Biò e Bunì - all’incontrario. Quello di sinistra tira a destra, quello di destra a sinistra. Così il biroccio si ribalta. Con poche masserizie recuperate in fretta ci trasferiamo sul greto dell’Arzilla dove trascorreremo sette giorni e sette notti.

 

***

Finché la guerra costringeva a pensare alla morte non c’era tempo per pensare ad altro. Così Aldo, mio padre, fuggì più lontano appena gli dissero che il cane poliziotto dei tedeschi scopriva i bauli sotterrati nel campo. Come avevano fatto anche i miei, ma i tedeschi non avevano fatto fatica a trovare e a dissotterrare le valigie:  prima era stata la volta dell’argenteria e delle porcellane di mamma, quelle dl matrimonio, poi il corredo della nonna, ancora integro e “intonso”, e poi via via le altre casse. Rimaneva da scovare, sotto una pianta di girasole e alcuni palmi di terra, solo la cassetta con dentro il fucile che avremmo dovuto a suo tempo ai tedeschi, pena la fucilazione. Ma dopo le altre  casse, adesso che avevano un grosso cane speciale, non sarebbe stato difficile trovare anche quella.

Papà fuggì di notte, sotto la pioggia delle bombe, per andare lontano, salutò i figli la moglie la madre e se ne andò con la fetta di pane in tasca e il berretto sulla frante, come un bandito. Il nome del paesino dove si sarebbe rifugiato, in segreto, lo lasciò a mia madre e scomparve nella notte, fra i cannicci, neri contro il cielo scuro. Ma appena la mattina dopo sua madre si ammalò, si agitava  sul materasso, dentro il cunicolo scavato nella sabbia a mo’ di rifugio, e  dovemmo portarla fuori: le pareva di soffocare e non voleva far la morte del topo. Vomitò tutto il giorno. Allora mia madre prese la decisione, affidò la suocera alle altre donne del rifugio e s’incamminò a piedi verso l’indirizzo segreto, che teneva custodito in sé. Viaggiò tutta la notte domandando la via ai partigiani che sfrecciavano tra le fratte, appiattandosi quando i tedeschi passavano rapidi sulla camionetta.

Quella notte le bombe del nemico - o quelli del nostro auspicabile liberatore - sfilacciavano di righi luminosi un cielo senza stelle e illuminavano di un bagliore spettrale, a brevi intervalli, i poggi intorno, ricadendo sui covi gialli e sulle case. e allora, in quella luce fredda e vivida, la campagna pareva un cimitero. Poi tornava il buio e gli unici bagliori  erano quelli delle bombe e del cannone. Una volta passarono anche due aerei a bassa quota per mitragliare, alla luce di un razzo, la strada e il ponte, e mia madre si buttò nel fosso a fianco della strada affondando e gridando senza che il fiato le uscisse di gola. Per tutta la notte le rimase il sapore della terra in bocca, amaro, stridente.

Albeggiava quando un contadino le indicò un fienile: c’era dentro suo marito, mio padre, steso fra la paglia, con la paura negli occhi insonni. Mia madre gli disse: “Torniamo sul greto del torrente: o moriamo tutti insieme o tutti insieme ci salviamo.”

Ripercorsero insieme il cammino celati tra le fratte perché i tedeschi non vedessero l’uomo, passo a passo fino al rifugio sul greto. Mia nonna stava meglio e recitava preghiere per l’anima di quel pilota straniero, da sei giorni ormai steso morto sotto il tumulo con la croce.

E giunse quell’ultimo giorno: i bimbi strillavano dentro i rifugi di sabbia che si sgretolavano ad ogni rimbombo, i grandi tacevano, i vecchi pregavano. I tedeschi vennero a quella sorta di accampamento, accompagnati dal cane poliziotto che era un cane lupo. Uno dei crucchi si era messo indosso una vestaglia azzurra da donna sopra la divisa, ma non sembrava troppo divertito,  gli occhi stanchi e la barba lunga. A un altro, il caporale biondo, spuntava una vistosa fasciatura da sotto l’elmetto. Vollero del vino, l’ultima bottiglia, e un po’ di pane, quello muffito che ci era rimasto, ripetettero le poche parole sconce imparate in Italia e se ne andarono in fretta. La notte piovve fuoco.

Ma al mattino dopo, appena emersi dal difficile impossibile riposo, ci accorgemmo che stavamo respirando un’aria diversa, forse nuova: si respirava nuovo: al posto del sibilo del cannone e del fragore degli scoppi c’era solo il silenzio, assordante come lo scrosciare di una cascata. I fili del telefono, rossi e gialli, stesi  fra il verde dell’erba, erano scomparsi. Mio padre s’arrampicò sul greppo, strisciando fra le stoppie del grano, e vide che il nostro poggio era deserto. Allora mi arrampicai anch’io sulla schiena del greto del torrente, e poi tutti altri: i tedeschi non c’erano più. Ma nessuno rise. Solo c’incamminammo uno dietro l’altro, in fila, per risalire il calvario del colle e riabbracciare la nostra terra.

 

6. SOTTO LE ARMI

Più la guerra andava avanti più si moltiplicavano le ulteriori  chiamate alle armi”. I miei cugini erano già partiti da tempo. Ma mio padre, stando all’età, era ormai fuori tempo massimo, sembrava al sicuro. Aveva fatto la sua brava prima guerra mondiale, con il grado di Sottotenente, dopo l’apprendistato in Urbino, spostato in varie parti del conflitto. sul fronte, sulle rive del Taro e altrove. Dall’epoca del suo congedo illimitato erano passati più di vent’anni. La seconda guerra mondiale proseguiva a rilento. Vittorie, disfatte?  Non ce la dicevano tutta, non ce la raccontavano giusta! E un brutto giorno, quando da tempo le incursioni aeree si moltiplicavano e così gli allarmi, le fughe nei rifugi improvvisati, i bombardamenti e le bombe, anche a papà arrivò “la chiamata”: doveva essere l’estate del 1944. Stavano raschiando il fondo del barile: mio padre, classe 1894, era chiamato a  presentarsi al distretto d’Ancona e in divisa. Ma che fine aveva fatto la sua divisa? E quante volte l’uniforme aveva cambiato foggia dalla fine della guerra precedente?

Dove recuperare in fretta una divisa? Interrogativo di ardua soluzione. Di divise recuperabili,  a Fano e zone limitrofe, non ce n’erano. E poi papà era di notevole stazza. Al fine della disperata ricerca la mamma riuscì a intercettare la divisa di un anziano militare congedato da tempo e di dimensioni più che notevoli. Taglia, riduci, stringi e cuci e l’approssimata divisa fu pronta per il giorno indicato e mio padre potette presentarsi in abbozzato grigioverde al distretto di Ancona, Eravamo in agosto. Salutai papà non immaginando certo che lo avrei visto ritornare fra noi molto prima del prevedibile. Dopo l’8 settembre, l’armistizio e il cambio di alleanze era scattato il provvidenziale “tutti a casa!”

In Ancona, nel breve periodo della sua permanenza presso il Distretto, lo avevano adibito a censurare le lettere che i militari spedivano dal fronte alle loro famiglie: dopo una scrupolosa lettura, andavano coperte di nero quelle righe che avrebbero potuto far individuare ai solerti spioni nemici, sempre in agguato, la dislocazione delle nostre truppe. Glielo avevano spiegato come fare ma non c’era stato manco il tempo  di  istallarsi alla scrivania.

Papà era tornato da Ancona con la stessa valigia di cartone con cui era partito in treno da Fano ma, quando l’aprì davanti a noi, al posto di mutande e canottiere era piena di chicchi di caffè alla rinfusa, senza involucri né pacchetti. Un vero tesoro! Il caffè – di cui mio padre e mia nonna erano frustrati consumatori - da anni ormai risultava introvabile e aveva ceduto il posto ai surrogati dai nomi esotici, fatti con la cicoria o addirittura con i ceci arrostiti, con risultati deplorevoli. E invece – guarda un po’ ? - al distretto miliare ce n’era in abbondanza e probabilmente mio padre lo aveva già individuato da tempo, prima che la caserma, come quelle di tutta Italia, venisse assaltata e depredata. E in mezzo al caffè, quale ultimo frutto dell’improvvisato ladrocinio, una bottiglia di Anisetta, la rinomata anisetta Meletti, quella venduta da sempre nel grande emporio sulla piazza di Ascoli Piceno. Un po’ di caffè in grani e un’Anisetta, gli unici furti dell’integerrimo papà!

E decidemmo tutti insieme che fosse meglio sloggiare subito da Fano per fare “gli sfollati” nella casetta della Selva, quattro chilometri dalla città e dallo storico Palazzo Gabuccini dov’ero nato e vissuto sino a quel momento. Portando con noi i viatici del caffè e dell’Anisetta Meletti.   

 

7. QUEI GIORNI

 

E arriviamo agli anni quaranta, gli anni terribili e fatidici della seconda guerra mondiale. La casetta alla Selva, sede un po’ risicata e sacrificata delle nostre estati, diventa la stabile residenza di noi sfollati: nonna, zia, papà, mamma e due figli.

Scoppia l’otto settembre. Papà, richiamato con l’ultima riserva, torna a casa. Come lui tanti, tutti. Ma la guerra, la guerra degli italiani, la guerra delle famiglie, forse comincia solo ora. Dalla salita dietro la quercia spuntano i soldati tedeschi, a giorni alterni: Ai, zvai, ai, zvai, ai, zvai. Una volta vogliono uova, una volta vino. Alle feste uova e vino. Protestano i contadini, protesta la nonna.

Il fronte, parola cifrata per dire la guerra con i cannoni le bombe la morte, si avvicina.

Ogni giorno, circa alle 14, vedo spuntare una coppia di grossi aerei – le fortezze volanti – che planano sul ponte Metauro. Lanciano qualche bomba e se ne vanno. E il ponte non cade mai.

Una notte una bomba d’aereo colpisce il Duomo. Qualcuno venuto su da Fano si ferma al bivio del Fenile e racconta notizie già trasfigurate in leggenda: è crollato il Palazzo Gabuccini, il Duomo, la Piazza, il Vescovo è morto fra le macerie…

Mio padre corre in città e può constatare, con sua e nostra relativa soddisfazione, che le voci erano un po’ allarmistiche: la bomba ha colpito una parte del palazzo vescovile e un angolo del Palazzo Gabuccini. E’ crollato il nostro salotto buono, quello con la carta di Francia rossa e le seggiole di paglia di Vienna.

Corrono i giorni della guerra. Il “fronte” si avvicina ancora. Un giorno, uno Spitfire della R.A.F. si abbassa sui campi del Fenile e mitraglia un mio amico, che ha su per giù la mia età, Gino d’ Crucella. Lui abitava al lato del torrente verso il Fenile ed io in quello verso la Selva. Quindi l’Arzilla è il nostro punto di contatto.  Siamo stati a “parà” le reti per gli uccelli all’Arzilla, mezz’ora prima. Poi l’aereo viene colpito dalle contraeree, sbanda, tenta l’atterraggio, urta contro un olmo, si abbatte. Il pilota muore,

Resta lì, riverso sul greppo sotto l’olmo, per un paio di giorni. Alla fine mio padre e Crocella, lo zio di Gino, il ragazzo ucciso, ottengono dai tedeschi il permesso di seppellire il cadavere del pilota. Intanto, in quei due giorni, una lenta, continua processione di gente, contadini, sfollati, curiosi, ha sfilato davanti al morto e, armata di cacciavite, ha letteralmente smontato tutto il moncone di aereo per portarne via i pezzi: grovigli di metallo, fili, vitine che, in tempo di guerra, sembrano un tesoro.

 

***

Il “fronte si avvicina”. Ancora una volta i tedeschi spuntano dalla salita dietro la quercia. Ma stavolta non sono i soliti in cerca delle uova e del vino, il piccolo sergente anziano con i prigionieri russi come aiutanti. Stavolta sono molti, una decina almeno, e cattivi. Non più “Ai, zwai, ai, zwai” ma “raus” e “kaput”.

Abbiamo un’ora di tempo per abbandonare le case, noi e i coloni. Stipiamo un biroccio, cercando di non far vedere quello che carichiamo perché i tedeschi non si affezionino prematuramente a questa o quella cosa. Papà è focoso, strilla e si arrabbia. Strappa dalle mani di un soldato la bicicletta che questi gli ha sottratto: devo portarci su mia mamma, che è vecchia!

Fuggiamo a rifugiarci sul greto dell’Arzilla dove passeremo sette giorni.

Dopo essersi avvicinato, il fronte “passa”. Quando torniamo su, in cima alla collina, ci viene da piangere: i tedeschi hanno portato via tutto, hanno disseppellito le casse con l’argenteria, i servizi buoni, le cose da tener da conto per sempre, regali mai usati del matrimonio di mia mamma, e di mia nonna. E quello che non hanno potuto portar via i tedeschi lo hanno distrutto: il servizio buono da 36, vanto di mia nonna; il servizio da spumante di Baccarà, vanto di mia mamma. (da “Fano Graffiti”)

 

 

8. I LIBERATORI

 

La prima attesa della mia vita – ero appena un bambino – fu quella dei liberatori.

Durante la guerra, specie negli ultimi tempi, dopo la burla dell’8 settembre che avrebbe dovuto scrivere la parole fine e invece aveva aperto il capitolo più tragico, aspettavamo la liberazione. Restavamo in attesa. E ogni giorno si ripeteva il rito: le fortezze volanti americane giungevano a bombardare ponte Metauro. L’avanzata degli alleati, o liberatori che dir si voglia, procedeva a rilento, approssimandosi alla temutissima linea gotica. E i nazisti la facevano da padroni, razziando gli ultimi filoni di pane e gli ultimi bottiglioni di vino. Poi un bel giorno – ricordo – i liberatori arrivarono. Due camionette, due tanks, insomma due carri armati leggeri.

Fecero cucù dietro il capannone dei cavoli, nella piana del Fenile ignari che ormai da ventiquattr’ore  i tedeschi se n’erano andati  abbandonando sul campo le loro ultime risorse, qualche fucile, una cane lupo, poche pagnotte di pane nerissimo e quadrato. 

Ma i liberatori non lo sapevano e si muovevano coi piedi di piombo. Rimasero appostati un quarto d’ora dietro il capannone dei cavoli e poi se ne riandarono via.

Qualche tempo più tardi arrivò una cicogna, un piccolo aereo da ricognizione. E cominciò a esplorare come un falco. Si abbassò, girò in tondo, si rialzò, planò, fece una picchiata ripida come volesse acciuffare un pulcino o mitragliare.

E la gente – gli sfollati, altro termine d’uso in quegli anni -, memore di analoghe liturgie, cominciò a spaventarsi davvero, temendo che quell’aereo potesse scambiarli per nemici.

Mio padre e altri due uomini spiegarono un grande lenzuolo bianco e lo agitarono. Come per dire, sperando che il ricognitore fosse in grado di capire il linguaggio di un lenzuolo agitato in fanese: non c’è più nessuno, niente tedeschi, siamo rimasti solo noi disgraziatissimi innocenti civili, sfollati, contadini, profughi, veniteci a liberare e facciamola finita.

Al mattino dopo le due camionette ricomparvero. Sbucarono da dietro il solito capannone, come venute dal nulla. Poi si fecero coraggio e scalarono la collina.

Scesero in quattro, con baschi in testa e le divise gialline, un colore equivoco, molto meno serio del cupo verde delle uniformi tedesche. Ma erano i liberatori. Non si reggevano molto bene in piedi. La commozione, pensammo. Ma da vicino puzzavano d’alcool, e ruttavano con frequenza e gagliardia sbalorditive. Evidentemente c’erano state altre fermate, altre liberazioni a breve.

Bevvero altro vino, l’ultimo vino guasto e inacidito sfuggito al teutonico, e ci annunciarono che eravamo liberi, che loro erano polacchi, e che presto sarebbero arrivati gli inglesi, i canadesi, gli americani e quant’altri. Ci mostrarono le nuove cartamonete d’occupazione, strette e lunghe, scritte un po’ in inglese e un po’ in italiano. Occhieggiarono voracemente donne, ragazze e ragazzini. Distribuirono abbracci e palpate. Ruttarono ancora e si rimisero in marcia. Eravamo liberi. Finita l’attesa.  (da “La terra dell’attesa”) 

(Leandro Castellani - 1990, 2020, 2024)

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