LA TV VISTA DAL CINEMA
(1994)
Fiorita improvvisamente e rigogliosamente negli anni Cinquanta, la televisione iniziò con lo "spiazzare" il cinema. In vari modi e per diversi motivi: un linguaggio così maturo, come quello del cinema, che nel corso di appena mezzo secolo aveva recuperato e bruciato tutte le tappe dell'esperienza artistica occidentale, dai primitivi al romanico, al gotico, al barocco e così via, veniva ora come svenduto nel nuovo supermercato dell'immagine, anzi in una sorta di liquidazione porta a porta. Un semplice distributore automatico di notizie, mezzibusti, incontri agonistici, storie e storielle comiche o melodrammatiche ricreate nell'angustia di uno "studio" conquistava la gente con immeritato credito. E nasceva l'anchorman, il personaggio accreditante, ultrapopolare per il solo fatto di comparire con spasmodica periodicità sul piccolo schermo. Il divismo in sedicesimo di una Lucille Ball o di un Raymond Burr, tutti attori di secondaria importanza, quasi rifiutati dal cinema o confinati in piccoli ruoli, aveva la meglio sul divismo dei mostri sacri del grande schermo. C'è di peggio, questa nuova industria, improvvisata e raffazzonata, riusciva a mettere in crisi l'oliata collaudatissima macchina hollywoodiana, creava timori e preoccupazioni, spostava - almeno in questa prima fase - l'asse della produzione d'immagini dalla California verso la costa est degli Stati Uniti.
C'è un film che, meglio di ogni altra dichiarazione d'intenti, esprime timori e paure del cinema, stigmatizzando, a fini esorcistici, la nefasta influenza della tv e i suoi occulti poteri, Un volto nella folla (1957), scritto da Budd Schulberg, corrosivo autore di critica sociale, e diretto da Elia Kazan, il "perfezionista" della recitazione, proveniente da una rigorosa esperienza teatrale, dunque lontano anni-luce dall'approssimata esperienza televisiva.
Un genuino e modesto "cantastorie" diventa, grazie a una rete tv, il portavoce nazionale delle insoddisfazioni e dei rancori, si monta la testa, usa del suo potere per pubblicizzare prodotti e idee scadenti, pensa di avere un proprio peso illimitato, prima di essere agevolmente distrutto dai burattinai che ne hanno retto i fili. La televisione come "macchina diabolica", creatrice di miti, ma capace di divorare i propri figli. Di fronte ad essa la "folla stupida", sedotta da chi gli somiglia.
Sono gli anni della lotta aperta, del divario totale: televisione contro cinema. Le cose cambieranno ben presto e inizierà la stagione dei connubi, artistici, divistici, commerciali, industriali ecc. La stessa Hollywood rinascerà grazie alla televisione, grazie alla sua nuova immensa platea si rinverdiranno popolarità, si affermeranno nuovi autori, si modificherà profondamente un linguaggio come quello del cinema che, negli anni Cinquanta, sembra giunto al capolinea.
Le "teleplay" del realismo intimista - targate anni Cinquanta - diverranno ottimi film per il grande schermo, da Marty alla Parola ai giurati, a Pranzo di nozze, a I giganti uccidono. Anche i serial frutteranno i loro bravi special cinematografici.
Ma la tv in quanto oggetto di rappresentazione cinematografica resta fissata a pochi stereotipi: il goffo giornalista, belloccio e un po' cialtrone, che si preoccupa soprattutto di essere aitante e simpatico di fronte alla telecamera, per diventare cinico e odioso appena "fuori onda"; redattrici zelanti quanto superficiali che imbastiscono falsi scoop oppure elemosinano patetiche interviste braccando letteralmente i malcapitati (58 minuti per morire, 1990); "conduttori" distratti che non vedono a un palmo dall'obbiettivo. Il telecronista diventa una macchietta mentre il cameraman ha il volto patetico di Jack Lemmon (Non per soldi... ma per denaro, 1966).
E insieme al personaggio del telecronista, il "comunicato commerciale", lo spot pubblicitario, diventa il secondo oggetto di derisione: arte cultura spettacolo al servizio dei più nauseabondi e stucchevoli prodotti da reclamizzare. Il cinema si diverte anche, con un certo sadismo, a ironizzare sullo "show" televisivo sottolineandone gli aspetti un po' kitch, da Ginger e Fred (1985) di Fellini sino a Giorni di gloria giorni d'amore (1991) di Mark Rydell, in entrambi dei quali si evocano "parate" di vecchie glorie. Ma permane una sorta di timore nell'affrontare di petto il problema tv.
Anche se il cinema, da creditore nei confronti della televisione, è ormai diventato debitore: di nuove formule di linguaggio, di un modo nuovo di raccontare e di muovere la cinepresa, di un montaggio meno convenzionale, di una nuova tecnologia nel campo degli "effetti speciali", di aria nuova oltre la claustrofobia degli studi, di autori nuovi, da Robert Altman a Steven Spielberg per limitarci alle due citazioni d'obbligo.
Quando la tv ridiventa protagonista, il discorso di Kazan viene riproposto più che modificato, aggiornato più che approfondito. Ancora la tv come specchio esemplare di una società - quella statunitense – preda del carrierismo più cinico e sfrenato, della competitività più selvaggia.
Quinto potere (1977) di Sidney Lumet, con il personaggio drammatico di Peter Finch, telegiornalista che da depresso con pulsioni suicide si trasforma in eroe popolare, alter ego alla rovescia dell'Andy Griffith di Un volto nella folla che ai ritornelli country e alla filosofia in pillole ha sostituito una corrosiva polemica politica. Poi il William Hurt di Dentro la notizia (1987) di James L.Brooks, altro arrivista pronto a sostenere il falso e a distruggere i colleghi per salvare la propria credibilità televisiva.
Anni 1956, 1977, 1987: è come se il cinema sentisse la necessità di raccontare la tv ad ogni sensibile giro di boa. Mentre sono in arrivo altri film a tematica televisiva, sintomo di un nuovo giro di boa del quale prima o poi converrà prendere atto.
In Italia il rapporto fra cinema e tv è non meno singolare. L'iniziale diffidenza dei cineasti nostrani verso il "divertimento per le serve" - come qualche rampollo di una cultura aristocratica ebbe a definire la televisione - non è meno forte di quella registrata negli USA anzi, se possibile, ancor più spocchiosa.
Il cinema di serie A la snobba, o meglio la ignora, quello di serie B tenta di sfruttarne occasioni e personaggi per modeste operazioni di cassetta. Totò lascia o raddoppia (1956) di Camillo Mastrocinque porta sul grande schermo i primi divi della tv, a cominciare dal popolarissimo Mike Bongiorno, altri volti televisivi verranno cinematograficamente svenduti, da Alberto Lupo a Sergio Fantoni a Raoul Grassilli a Lyda Alfonsi...
Di maggiori ambizioni l'episodio "Il dentone" con Alberto Sordi, inserito nel film I complessi (1965) di Dino Risi, dove si racconta della selezione per un nuovo lettore di telegiornale e si rappresenta, in modo quasi commovente per la sua ingenuità, una Commissione esaminatrice, con tanto di professor Cutolo a presiederla, funzionari, esperti vari e un immancabile quanto improbabile monsignore a far da consulente. Di autentico ci sono solo gli esterni di via Teulada. Ma la morale è condivisibile: il fascino del teleschermo è tale che la gente riesce ad "affezionarsi" anche a una faccia improponibile, candidato vincente nonostante gli sforzi congiunti della Commissione per farlo capitolare! Il televisore, nuovo focolare di una famiglia in crisi di dialogo, apparirà sempre più frequentemente come elettrodomestico ineludibile in tutta una serie di film comici, basti citare le saghe di Fantozzi e Fracchia, con quel Villaggio in mutande e canottiera ansioso di godersi in santa pace la sua partita di calcio, o con il ragionier Filini che, nel paese di Dracula, commenta il prematuro rientro dei terrorizzati paesani alle loro case: "Beati loro che vanno a vedere la tivì!"
Quanto al lato realizzativo e produttivo si verifica quasi il contrario di ciò che è accaduto negli Stati Uniti. Il disinteresse reciproco fra cinema e tv, che si tinge di reciproco disprezzo, permarrà immutato per diversi anni: i registi di cinema si faranno un dovere d'ignorare la tv mentre quelli televisivi vedranno nel cinema solo un redditizio e molto saltuario diversivo.
Il cinema sarà costretto ad accettare l'esistenza della tv solo quando si accorgerà di essere entrato in coma irreversibile e ne tenterà allora l'occupazione massiccia, non facendo tesoro né conto di quanto la televisione italiana ha sino ad allora prodotto e inventato, sia sul piano dei "generi" che su quello del linguaggio, ma limitandosi a trasferirvi metodi di lavoro ormai desueti e moduli narrativi spesso stantii, interrompendo esperienze espressive talora preziose e causando indirettamente, come primo immediato effetto, una cospicua levitazione dei costi di produzione.
Le conseguenze piuttosto amare, che coinvolgono sia il cinema che la televisione - divenuta nel frattempo l'unica, o quasi, produttrice e finanziatrice di film per il grande schermo - sono sotto gli occhi di tutti.
Lasciando da parte questa tematica che ci porterebbe lontano, non si può non concludere come il cinema abbia "narrato" poco e superficialmente la tv.
Ci riprova Carlo Verdone, abbozzando il godibile ritratto di un "conduttore" un po' cialtrone - un occhio alla famigerata audience ed uno con la lacrima facile - nel suo Perdiamoci di vista, titolo emblematico di un rapporto conflittuale. Ma ormai la storia dell'immagine ha imbroccato un cammino a senso unico e cinema e tv non possono proprio "perdersi di vista" o ignorarsi, se non nelle righe arcigne di qualche difensore d'ufficio di "specifici" ormai desueti.
(da((da "Rivista del Cinematografo", aprile 1994, pp.14-15)
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