giovedì 29 febbraio 2024

LEANDRO CASTELLANI - LA TV VISTA DAL CINEMA - 1994

 

 

 


LA TV VISTA DAL CINEMA

(1994)

 

 

Fiorita improvvisamente e rigogliosamente negli anni Cinquanta, la televisione iniziò con lo "spiazzare" il cinema. In vari modi e per diversi motivi: un linguaggio così maturo, come quello del cinema, che nel corso di appena mezzo secolo aveva recuperato e bruciato tutte le tappe dell'esperienza artistica occidentale, dai primitivi al romanico, al gotico, al barocco e così via, veniva ora come svenduto nel nuovo supermercato dell'immagine, anzi in una sorta di liquidazione porta a porta. Un semplice distributore automatico di notizie, mezzibusti, incontri agonistici, storie e storielle comiche o melodrammatiche ricreate nell'angustia di uno "studio" conquistava la gente con immeritato credito. E nasceva l'anchorman, il personaggio accreditante, ultrapopolare per il solo fatto di comparire con spasmodica periodicità sul piccolo schermo. Il divismo in sedicesimo di una Lucille Ball o di un Raymond Burr, tutti attori di secondaria importanza, quasi rifiutati dal cinema o confinati in piccoli ruoli, aveva la meglio sul divismo dei mostri sacri del grande schermo. C'è di peggio, questa nuova industria, improvvisata e raffazzonata, riusciva a mettere in crisi l'oliata collaudatissima macchina hollywoodiana, creava timori e preoccupazioni, spostava - almeno in questa prima fase - l'asse della produzione d'immagini dalla California verso la costa est degli Stati Uniti.

C'è un film che, meglio di ogni altra dichiarazione d'intenti, esprime timori e paure del cinema, stigmatizzando, a fini esorcistici, la nefasta influenza della tv e i suoi occulti poteri, Un volto nella folla (1957), scritto da Budd Schulberg, corrosivo autore di critica sociale, e diretto da Elia Kazan, il "perfezionista" della recitazione, proveniente da una rigorosa esperienza teatrale, dunque lontano anni-luce dall'approssimata esperienza televisiva.

Un genuino e modesto "cantastorie" diventa, grazie a una rete tv, il portavoce nazionale delle insoddisfazioni e dei rancori, si monta la testa, usa del suo potere per pubblicizzare prodotti e idee scadenti, pensa di avere un proprio peso illimitato, prima di essere agevolmente distrutto dai burattinai che ne hanno retto i fili. La televisione come "macchina diabolica", creatrice di miti, ma capace di divorare i propri figli. Di fronte ad essa la "folla stupida", sedotta da chi gli somiglia.

Sono gli anni della lotta aperta, del divario totale: televisione contro cinema. Le cose cambieranno ben presto e inizierà la stagione dei connubi, artistici, divistici, commerciali, industriali ecc. La stessa Hollywood rinascerà grazie alla televisione, grazie alla sua nuova immensa platea si rinverdiranno popolarità, si affermeranno nuovi autori, si modificherà profondamente un linguaggio come quello del cinema che, negli anni Cinquanta, sembra giunto al capolinea.

Le "teleplay" del realismo intimista - targate anni Cinquanta - diverranno ottimi film per il grande schermo, da Marty alla Parola ai giurati, a Pranzo di nozze, a I giganti uccidono. Anche i serial frutteranno i loro bravi special cinematografici.

Ma la tv in quanto oggetto di rappresentazione cinematografica resta fissata a pochi stereotipi: il goffo giornalista, belloccio e un po' cialtrone, che si preoccupa soprattutto di essere aitante e simpatico di fronte alla telecamera, per diventare cinico e odioso appena "fuori onda"; redattrici zelanti quanto superficiali che imbastiscono falsi scoop oppure elemosinano patetiche interviste braccando letteralmente i malcapitati (58 minuti per morire, 1990); "conduttori" distratti che non vedono a un palmo dall'obbiettivo. Il telecronista diventa una macchietta mentre il cameraman ha il volto patetico di Jack Lemmon (Non per soldi... ma per denaro, 1966).

E insieme al personaggio del telecronista, il "comunicato commerciale", lo spot pubblicitario, diventa il secondo oggetto di derisione: arte cultura spettacolo al servizio dei più nauseabondi e stucchevoli prodotti da reclamizzare. Il cinema si diverte anche, con un certo sadismo, a ironizzare sullo "show" televisivo sottolineandone gli aspetti un po' kitch, da Ginger e Fred (1985) di Fellini sino a Giorni di gloria giorni d'amore (1991) di Mark Rydell, in entrambi dei quali si evocano "parate" di vecchie glorie. Ma permane una sorta di timore nell'affrontare di petto il problema tv.

Anche se il cinema, da creditore nei confronti della televisione, è ormai diventato debitore: di nuove formule di linguaggio, di un modo nuovo di raccontare e di muovere la cinepresa, di un montaggio meno convenzionale, di una nuova tecnologia nel campo degli "effetti speciali", di aria nuova oltre la claustrofobia degli studi, di autori nuovi, da Robert Altman a Steven Spielberg per limitarci alle due citazioni d'obbligo.

Quando la tv ridiventa protagonista, il discorso di Kazan viene riproposto più che modificato, aggiornato più che approfondito. Ancora la tv come specchio esemplare di una società - quella statunitense – preda del carrierismo più cinico e sfrenato, della competitività più selvaggia.

Quinto potere (1977) di Sidney Lumet, con il personaggio drammatico di Peter Finch, telegiornalista che da depresso con pulsioni suicide si trasforma in eroe popolare, alter ego alla rovescia dell'Andy Griffith di Un volto nella folla che ai ritornelli country e alla filosofia in pillole ha sostituito una corrosiva polemica politica. Poi il William Hurt di Dentro la notizia (1987) di James L.Brooks, altro arrivista pronto a sostenere il falso e a distruggere i colleghi per salvare la propria credibilità televisiva.

Anni 1956, 1977, 1987: è come se il cinema sentisse la necessità di raccontare la tv ad ogni sensibile giro di boa. Mentre sono in arrivo altri film a tematica televisiva, sintomo di un nuovo giro di boa del quale prima o poi converrà prendere atto.

In Italia il rapporto fra cinema e tv è non meno singolare. L'iniziale diffidenza dei cineasti nostrani verso il "divertimento per le serve" - come qualche rampollo di una cultura aristocratica ebbe a definire la televisione - non è meno forte di quella registrata negli USA anzi, se possibile, ancor più spocchiosa.

Il cinema di serie A la snobba, o meglio la ignora, quello di serie B tenta di sfruttarne occasioni e personaggi per modeste operazioni di cassetta. Totò lascia o raddoppia (1956) di Camillo Mastrocinque porta sul grande schermo i primi divi della tv, a cominciare dal popolarissimo Mike Bongiorno, altri volti televisivi verranno cinematograficamente svenduti, da Alberto Lupo a Sergio Fantoni a Raoul Grassilli a Lyda Alfonsi...

Di maggiori ambizioni l'episodio "Il dentone" con Alberto Sordi, inserito nel film I complessi (1965) di Dino Risi, dove si racconta della selezione per un nuovo lettore di telegiornale e si rappresenta, in modo quasi commovente per la sua ingenuità, una Commissione esaminatrice, con tanto di professor Cutolo a presiederla, funzionari, esperti vari e un immancabile quanto improbabile monsignore a far da consulente. Di autentico ci sono solo gli esterni di via Teulada. Ma la morale è condivisibile: il fascino del teleschermo è tale che la gente riesce ad "affezionarsi" anche a una faccia improponibile, candidato vincente nonostante gli sforzi congiunti della Commissione per farlo capitolare! Il televisore, nuovo focolare di una famiglia in crisi di dialogo, apparirà sempre più frequentemente come elettrodomestico ineludibile in tutta una serie di film comici, basti citare le saghe di Fantozzi e Fracchia, con quel Villaggio in mutande e canottiera ansioso di godersi in santa pace la sua partita di calcio, o con il ragionier Filini che, nel paese di Dracula, commenta il prematuro rientro dei terrorizzati paesani alle loro case: "Beati loro che vanno a vedere la tivì!"

Quanto al lato realizzativo e produttivo si verifica quasi il contrario di ciò che è accaduto negli Stati Uniti. Il disinteresse reciproco fra cinema e tv, che si tinge di reciproco disprezzo, permarrà immutato per diversi anni: i registi di cinema si faranno un dovere d'ignorare la tv mentre quelli televisivi vedranno nel cinema solo un redditizio e molto saltuario diversivo.

Il cinema sarà costretto ad accettare l'esistenza della tv solo quando si accorgerà di essere entrato in coma irreversibile e ne tenterà allora l'occupazione massiccia, non facendo tesoro né conto di quanto la televisione italiana ha sino ad allora prodotto e inventato, sia sul piano dei "generi" che su quello del linguaggio, ma limitandosi a trasferirvi metodi di lavoro ormai desueti e moduli narrativi spesso stantii, interrompendo esperienze espressive talora preziose e causando indirettamente, come primo immediato effetto, una cospicua levitazione dei costi di produzione.

Le conseguenze piuttosto amare, che coinvolgono sia il cinema che la televisione - divenuta nel frattempo l'unica, o quasi, produttrice e finanziatrice di film per il grande schermo - sono sotto gli occhi di tutti.

Lasciando da parte questa tematica che ci porterebbe lontano, non si può non concludere come il cinema abbia "narrato" poco e superficialmente la tv.

Ci riprova Carlo Verdone, abbozzando il godibile ritratto di un "conduttore" un po' cialtrone - un occhio alla famigerata audience ed uno con la lacrima facile - nel suo Perdiamoci di vista, titolo emblematico di un rapporto conflittuale. Ma ormai la storia dell'immagine ha imbroccato un cammino a senso unico e cinema e tv non possono proprio "perdersi di vista" o ignorarsi, se non nelle righe arcigne di qualche difensore d'ufficio di "specifici" ormai desueti. 

 

(da((da "Rivista del Cinematografo", aprile 1994, pp.14-15)

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mercoledì 28 febbraio 2024

LEANDRO CASTELLANI - CINEMA E BIBBIA (1994)

 

 

 


In un singolare e-book - PARLIAMO DI CINEMA - edito secolo fa ma tuttora presente su Amazon, raccolsi una serie di saggi di varia estensione, scritti tra il 1995 e il 2000 per prestigiose riviste di cultura o per importanti seminari e convegni. Li riprodurrò da oggi in ordine di stesura

 

CINEMA E BIBBIA

(1994)


La La
"biblia pauperum" - i grandi cicli d'affreschi delle nostre chiese romaniche, quelli di un anonimo pittore o quelli di Giotto -; le storie della creazione e del peccato originale scolpite sugli stipiti della Cattedrale di Chartres; le sacre rappresentazioni di Oberammergau o di Cantiano, con quei popolani vestiti da guerrieri e il garzone del macellaio che interpreta Cristo, i presepi napoletani del settecento, densi di artigiani pastori contadini e la Sacra Famiglia riparata da un rudere romano sotto un cielo gremito di stelle e di angeli.

Tutte espressioni di un'arte popolare - cioè per molti, per la gente - che da sempre e su vari livelli di consapevole espressività, è servita a raccontare o ricordare l'episodica del sacro, a destare la commozione, cioè ad incidere sull'emotività, nel senso più nobile del termine, a "edificare" e dar "buoni frutti". Ogni artista - blasonato, anonimo o naif - mescola in un personalissimo tutt'uno il messaggio della Bibbia con la propria visione di uomo, il momento storico che sta vivendo con i sentimenti della gente, i giudizi e i pregiudizi dei contemporanei.

L'arte popolare ha da sempre "dato una mano", in questa forma singolare, all'evangelizzazione e alla catechesi.

E il cinema? Anche il cinema è un'arte popolare - cioè, ripetiamolo a scanso d'equivoci, "per molti" - ma quando si avvicina ai temi del sacro lo fa talvolta per illustrare, commuovere, talvolta per sconcertare, per scandalizzare addirittura.

Già, perché c'è una differenza: il Presepe, gli affreschi medievali, i cicli pittorici della Riforma tridentina, le sacre rappresentazioni popolari nascono nell'alveo di una cultura fortemente impregnata di valori cristiani, di cui l'artista è portavoce consapevole, investito in vario modo e a vario titolo in un compito di vera e propria evangelizzazione. Anche nelle realizzazioni più personali e forse devianti non c'è mai netta opposizione o un intento dissacratorio.

Il cinema nasce in un contesto culturale variegato, si nutre di una visione del mondo e della vita talora assai lontana da quelli che uno spirito religioso reputa autentici valori, il chè non può non influenzare in vario modo le stesse rappresentazioni del sacro che la cosiddetta Settima Arte tenta di dare e che talora con tali valori possono entrare persino in conflitto.

Cecil B.De Mille, autore dei Dieci comandamenti (1956) e iniziatore ufficiale del ciclo biblico-hollywoodiano, scopre nelle storie del Vecchio Testamento, già frequentate sin dagli anni del "muto", una miniera inesauribile, l'occasione per una sorta di "meravigliosa"telenovela antelitteram, con quelle Tavole della Legge scolpite da un divino raggio laser e quelle acque del Mar Rosso che si ritirano, in maniera così prodigiosa, al comando del "mago" Mosè per consentire il passaggio del popolo di Dio e poi ripiombare sull'esercito egiziano.

Ma come negare il fatto che film come questo - vecchio ormai di quasi quarant'anni - abbiano contribuito efficacemente a far conoscere pagine dell'Antico Testamento non troppo frequentate dal mondo cattolico; come negare il tentativo un po' magniloquente ma non insincero di "commuovere" lo spettatore e farlo riflettere in qualche modo sul lungo dialogo fra l'uomo e il suo Creatore? E come non avvertire che la forma di religiosità a cui quel film si richiamava fosse strettamente imparentata con la religiosità popolare in essere negli stessi anni, dal gusto delle immagini sacre agli atteggiamenti della statuaria religiosa, e così via? Dunque un'incidenza sul sentimento e sul costume religioso non troppo dissimile dalle forme paraliturgiche e d'arte sacra dello stesso momento storico ma forse più eloquente ed efficace. Eppure, se si eccettuano le incursioni che risalgono agli anni del muto, o l'episodio De Mille, nonchè la Bibbia illustrata di De Laurentiis ed ora la Bibbia-Bernabei, il cinema non ha mai raccontato troppo dell'Antico Testamento...

E forse nessuna di queste pagine filmate è stata in grado di incidere profondamente sullo spettatore tanto da costituire un'autentica esperienza religiosa, proprio perché nessun autore a tutt'oggi ha saputo o voluto ripercorrere sino in fondo il cammino dell'anonimo scalpellino medioevale: riconoscere, attraverso un lavoro fatto preghiera, il messaggio biblico nel proprio presente. Si è rimasti sempre sul piano di un' "illustrazione" più o meno corretta e "doverosa", ma comunque declinata al "passato remoto".

Più fecondi e vissuti gli interventi sul Nuovo Testamento, sul Vangelo. Ogni regista, anche il più "decorativo" e meno problematico, nel momento in cui si appresta ad affrontare la vita di Cristo, non può fare a meno di rivolgersi la domanda: chi è Gesù per me? E il quesito si ripercuote fatalmente sullo spettatore, anche sul più "lontano" e distratto, lo rimette in discussione, lo interroga.

Certo, con differenti accentuazioni. Ma anche nelle espressioni cinematografiche più fredde o di maniera il racconto della vita di Cristo può trasformarsi in esperienza autenticamente religiosa. E' quanto accade del resto durante le "sacre rappresentazioni popolari" ancora in vita, anche nelle più goffe e ingenue. Si ha un bell'essere "distaccati" e "superiori" di fronte alla precarietà della messa in scena, all'approssimazione dei costumi, alla goffaggine degli interpreti. Sia pure per un solo istante quella "rappresentazione" può trasformarsi in "evocazione" di una vicenda più grande, dell'evento salvifico, del sacrificio di Cristo. E allora la commozione sgorga spontanea e irrefrenabile. E con la commozione, la riflessione, il richiamo ai significati profondi, la richiesta prepotente di una revisione di vita e di pensieri.

Allo stesso titolo direi che ogni film su Gesù può costituire, nel suo complesso o in alcuni momenti di grazia, un'esperienza religiosa.

Intanto perchè propone ad ognuno di noi il confronto fra quel Gesù e il "nostro": il Gesù raccontato dal regista può anche inizialmente sconcertarci, addirittura irritarci - perchè quel volto, quei gesti, quel contesto insolito? - ma poi ci forza a rileggere e ripensare parole, episodi, azioni che conosciamo da sempre e dunque abbiamo sistemato - e forse rimosso - in una visione di maniera, come una consuetudine ereditata dall'infanzia che non coinvolge più il nostro travaglio quotidiano di adulti.

In questo senso si potrebbe affermare per assurdo che le rappresentazioni più "povere", o approssimative o infedeli, possono rivelarsi le più feconde, perché ci obbligano a rimettere in discussione e dunque a ripensare e rivivere il "nostro" Gesù.

La prova del nove? Due "vite di Cristo" narrate dal cinema, entrambe interessanti e valide: Zeffirelli fa ritrovare alle cosiddette "anime pie" i momenti topici, i volti, gli atteggiamenti, addirittura la tradizione iconografica a cui siamo stati adusi, dagli anni della Riforma tridentina sino alla vigilia del Vaticano II. Accarezza e blandisce il nostro spirito con una buona dose di commozione, rinfrescando i ricordi catechistici giovanili. Al contrario, collocando attorno a un Cristo enigmatico i volti dei nostri contemporanei poveri, il mondo degli "esclusi", il "Gesù" di Pasolini ci sconcerta forse, ma ci impegna e ci chiama in causa.

Lo stesso valore provocatorio che possono avere per un giovane le sequenze di Jesus Christ Superstar, un Gesù fratello e amico riscoperto a ritmo di rock, o addirittura alcune pagine del “blasfemo” Ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese.

Il fatto che i film sulla Bibbia, e sulla vita di Gesù in particolare, punteggino tutta la storia del cinema nel suo arco ormai secolare, è una riprova dell'interesse per una tematica che continua ad essere centrale per l'esperienza umana, un'occasione ricorrente di richiamo a valori che certo non tutti gli artisti interpretano e vivono allo stesso modo ma da cui si sentono comunque interpellati. E l'incidenza di questi film ha pur sempre una cifra positiva, provoca un impatto che non si può non chiamare religioso, nel senso di un richiamo a una scala di valori assai lontani da quelli che il nostro tempo - e l'arte che ne celebra i fasti - ha posto ai vertici della sua gerarchia: il successo, il denaro, il sesso, l'effimero, la violenza come legge del più forte nei rapporti fra gli uomini e fra le nazioni. Ogni film su Cristo invita in qualche modo lo spettatore a porsi una serie di perché: perché la violenza, perché il sesso, perché il denaro, perché il successo, perché la legge del più forte?, quindi a rimettere intimamente in discussione tali "punti di mira". Gesù abita fra noi? E' la stessa domanda che si poneva Giotto. E rispondeva ritrovando Gesù nel proprio tempo, in mezzo alla città degli uomini, fra le torri della civiltà dei comuni.

La conclusione è prossima al punto di partenza. Il film a tema religioso o biblico - espressione di quel linguaggio popolare che è il cinema - talvolta è puro e semplice tentativo d'illustrazione, più o meno sincero, talora ricerca vissuta e sofferta, talora proposta o provocazione polemica. E dunque, volta a volta, può istruirci, stimolarci, provocarci, scandalizzarci forse. Ma ogni provocazione che rompa la scorza inerte dell'indifferenza ha una valenza religiosa. O potrebbe averla.