mercoledì 13 settembre 2023

LEANDRO CASTELLANI - PAROLE PAROLE PAROLE

 

 

PAROLE PAROLE PAROLE…

 

Assente dal paese per più di una decina d’anni, il filosofo  Ernst Cassirer, rimettendo piede in Germania, fece una mirabolante scoperta: dopo l’uragano del nazismo non era più in grado di capire la sua lingua tedesca, le parole avevano assunto un significato totalmente diverso da quello originario.

Credo che in Italia, da quarant’anni a questa parte, sia successa un po’ la stessa cosa. Ecco, faccio conto di essere rimasto assente per il corso di una generazione, facciamo due, e guardate un po’ cosa mi ritrovo.

 

Compagno”: negli anni Cinquanta era il termine usato per definirsi fra loro dai militanti comunisti, quelli cantati da Guareschi nel suo “Don Camillo” o ironizzati dal medesimo nelle vignette dei “trinariciuti”. Comunista: un militante leale e combattivo, di schietta fede marxista-leninista, formato sui sacri testi, tipo il Capitale e il Manifesto, o sulle più agevoli ma puntuali volgarizzazioni del “Calendario del popolo”, frequentatore di cellule e sezioni, distributore di volantini o di birra e salsicce alle feste dell’Unità, vetero-comunista anteguerra o neo-comunista post-resistenziale. Spesso individuabile anche dal modo di vestire: bandite giacca e cravatta a favore di maglioni in lana ruvida, capelli riccioluti ma corti sulla nuca, sfumatura alta e fede sincera in quell’idilliaco socialismo reale praticato nell’Unione Sovietica all’ombra di un papà bonario e dai baffi rassicuranti che si chiamava Giuseppe Stalin, Baffone per i nemici, in aperta e fiera competizione con gli incravattati e profumati democristiani, baciapile e forchettoni un po’ calvi o con la chioma ben ravviata. Ma le differenze poltico-ideologiche fra bianchi e rossi non ne mettevano in discussione la reciproca dignità personale, talvolta l’amicizia. Civilmente e umanamente comunisti, democristiani o genericamente disimpegnati potevano essere amici fra loro, anche fraterni. Un po’ più settarie le sporadiche rappresentanti del gentil sesso, divise equamente fra rubiconde massaie e vigorose pasionarie, propense a snobbare le signore aristocratiche nonché le conventucole borghesi fuori o dentro le chiese.

Oggi i termini “compagno” e “compagna” hanno un significato ben diverso: identificano tutte quelle coppie che un tempo si sarebbero dette di “concubini”, cioè le conviventi o i conviventi che hanno deciso per necessità o per scelta ideologico-pratica di non consolidare il loro legame mediante matrimonio, civile o religioso che sia. A tal punto la vecchia accezione è divenuta desueta che anche gli uomini sposati e le donne coniugate preferiscono usare in pubblico i termini di compagni e compagne piuttosto che di mariti e mogli. Fa più fino, à la page per dirla in francese. Il termine “compagni” si estende poi anche a conviventi – o concubini – dello stesso sesso, ma queste ultime o questi ultimi smaniosi il più delle volte, al contrario dei primi, di sancire la loro unione con nozze più o meno regolari nel corso delle quali esibire abiti bianchi, bouquets, confetti e lancio di riso non integrale, con successivo festino e bomboniere.

La vecchia accezione è ormai desueta: non di rado i discendenti prossimi o remoti di quello che fu un tempo il comunismo oggi si sono borghesizzati e incravattati, hanno i cappelli fluenti sulla nuca, quando non appartengono alla cosiddetta variante “radical chic”: tolleranti con i simili e intolleranti al massimo verso tutti gli altri, con ostentati atteggiamenti di superiorità sino all’ostracismo verso i non allineati, i devianti ideologici, e così via. Non  più compagni ma disamorati e insofferenti “amici”.

 

Amante”: mezzo secolo fa era un termine usato in una doppia accezione. La prima letterale: amante, cioè colui che ama. L’altro effettuale: due esseri di sesso differente uniti da un sentimento d’amore di durata variabile ma comunque non sancito, o non sancibile, mediante un rapporto sociale riconosciuto e documentato, leggi matrimonio. Quindi era un termine da pronunciarsi con cautela, possibilmente a mezza voce: quel tale ha un’amante, quella tale ha un amante. Oggi il termine è di fatto scomparso. Di due persone legate da un  rapporto di sesso-amore si usa dire che hanno una “relazione” (versione corretta) oppure che sono “fidanzati” (versione giornalistica), se giovanissimi o minorenni “fidanzatini” (versione televisiva), oppure che “scopano” (versione plebea). Quest’ultima espressione sostituisce di fatto quella desueta, cioè “fare l’amore” o “fare all’amore”. Oppure si può dire “fare sesso”, che è il modo più corretto ed elegante. Scomparso il vecchio termine “chiavare” molto più plebeo e volgare, ma indubbiamente espressivo, rispetto al termine “scopare”, criptico ed ermetico.

C’è una prima conclusione da trarre da queste spericolate considerazioni? Sì, il trionfo dell’ipocrisia e del perbenismo: i nuovi eufemismi, apparentemente più espliciti, conferiscono ad ogni rapporto sentimental-sessuale, per trasgressivo che possa essere, una patente di praticabilità sconfiggendo inopportuni falsi pudori.

 

Omosessuale”, termine usato in tempi passati per definire una persona affetta o connotata da una “devianza sessuale” più o meno comunemente riconosciuta o addirittura esibita. Esistevano altri termini di carattere umoristico-satirico o addirittura offensivo: frocio, recchione, culattone, checca eccetera. L’omosessualità veniva definita “devianza” dai dizionari d’uso comune in quanto si riteneva “normalità” il fatto che una figura di genere maschile provasse desideri e tendenze nei confronti di una figura di genere femminile, anche in virtù della configurazione anatomico-fisiologica che aveva fornita al maschio il pene e alla femmina la vagina. Oggi il termine inglese gay (allegro, gaio) sostituisce la vecchia dizione connessa al brutto termine di devianza, conferendo pari o maggiore dignità al maschio che ama congiungersi sessualmente e sentimentalmente ad un altro maschio. In più la scoperta della omosessualità femminile, forse esistente già da tempi remoti (Lesbo insegna) ma un tempo non ammissibile e addirittura non pronunciabile neppure sottovoce. Così come l’universo femminile cerca giustamente ai nostri giorni la piena affermazione dei propri diritti e del proprio valore, dopo secoli di colpevole sudditanza nei confronti di quello maschile, così il mondo gay vive oggi la sua rivolta civile e sta conquistandosi non solo lo spazio ma addirittura il primato nella generale considerazione. Devianti saranno gli altri, uomini e donne placidamente soddisfatti del proprio ruolo di maschi e femmine, seguendo pedissequamente la via tracciata dagli attributi forniti loro da madre natura e rinunciando a rivendicare la loro vera sessualità, forse repressa e conculcata. E poi le moderne conquiste della medicina e della chirurgia, oltre a garantirci il trapianto di organi vari, cuore fegato e altri ammennicoli, nonché il rimodellamento di altri, seni, culi, labbra, non ci consentono forse di rimodellare il nostro ruolo fisico-sessuale, forse represso? Così l’uomo è libero di scoprirsi donna, la donna è libera di scoprirsi uomo, e i fanciulli di varia natura sono liberi di meditare e programmare il loro futuro fisico-sessuale. Oggi ci pensa anche la scuola a somministrare le debite istruzioni e a fornire i dovuti imput. La sessualità si conquista, diventa un’arma, un trofeo, un gagliardetto.

 

Bontà”, altro termine desueto. Al suo posto si può usare il termine “buonismo”, cioè una bontà impastata di luoghi comuni che ci prescrivono di essere compiacenti verso i ladri che certo lo fanno per bisogno, verso gli assassini che sono vittima di turbe mentali, verso gli stupratori vittime delle diversità culturali, mentre ci invitano a reprimere ogni atteggiamento che potrebbe sonare offesa a sentimenti e tradizioni di ospiti non collimanti con la nostra cultura: dunque via il crocefisso dalle scuole, via il presepe dalle case, via Babbo Natale dai supermercati, via il vino dalle bevande ufficiali, via i porcellini dalle giostre, via i professori che danno brutti voti, via le forze dell’ordine che se la prendono con i manifestanti armati di bastoni e altri corpi  contundenti. Inoltre vanno sostituiti gradevoli eufemismi a termini che potrebbero risultare irriguardosi e irritanti: non vedenti al posto di ciechi, diversamente abili al posto di inabili, escort al posto di prostitute o meretrici, migranti al posto di clandestini, sinti e rom al posto di zingari... Attenzione spasmodica verso il mondo dei minori: precoci assatanate adolescenti con culo e tette al vento vanno tutelate occultando il loro volto con appositi effetti e sfocature nelle immagini della televisione. Stesso trattamento per neonati e pargoletti un tempo ostentati con orgoglio fra le braccia delle relative madri. Inoltre il buonismo coltiva e ostenta sentimenti di odio e di ribrezzo verso chi non è d’accordo, nonché verso i nuovi “diversi”, cioè coloro ancora legati a termini desueti quanto offensivi come madri e padri, in luogo di genitore uno e due, unico criterio valido per coppie gay. Anche circa l’uso del termine “terrorista” bisognerebbe starci attenti: forse sono figli di una diversa cultura, forse reagiscono ai maltrattamenti subiti nei rispettivi d’origine, forse rivendicano diritti conculcati nei loro confronti ieri, l’altro-ieri o magari sei-settecento anni fa: insomma tutta colpa delle crociate.       

Disprezzo e intolleranza per coloro che non professano il verbo animalista e considerano gli animali simpatici buoni affettuosi quanto si vuole ma un gradino più giù degli esseri umani, riprovazione verso coloro che amano il circo, la corrida, i cani ammaestrati o il Palio di Siena. Insomma il buonismo è anche sinonimo di “santa” intolleranza.

 

Privacy” cioè culto e rispetto della riservatezza. Nel secolo della pubblicità ad oltranza, del disvelamento parossistico e costante di uomini e fatti (vulgo: sputtanamento), degli scandali commentati in piazza ed esibiti in vetrina, nasce e si afferma la conclamata “privacy”, che spesso – almeno per l’utente - si riduce e si traduce di fatto nella noiosa incombenza di dover firmare una serie di moduli al momento di un acquisto a rate, di un mutuo, di un impegno qualsiasi, moduli che autorizzano o non autorizzano a mettere in giro notizie su di noi, il nostro indirizzo, la nostra professione e così via. Come se non ci pensassero già in tanti, dal codice fiscale alla tessera sanitaria, dall’anagrafe dell’Agenzia delle Entrate ad Equitalia, ai social network, alle mailing post ad eternare il nostro nome, cognome, colore dei capelli, predilezioni sessuali, hobbies e così via. Il culto della privacy è il grande alibi nel secolo della falsa trasparenza. Somiglia a quella curiosa dichiarazione che i rappresentanti delle ditte invitate a pubblici incarichi e appalti devono sottoscrivere per affermare la loro completa estraneità da qualsivoglia congrega e pratica mafiosa. Altro alibi per conferire una patente di verginità a imprese chiacchierate. Ci pensano poi le rubriche televisive pomeridiane a eternare vita morte e miracoli di totali o parziali delinquenti, perseguitati e vittime, congiunti di vittime e familiari di assassini, passanti per luoghi del delitto, vicini di casa, conoscenti, ex-fidanzati, compagni di scuola, clienti di supermercati e così via, con il prezioso ausilio di fotoreporter, macchine fotografiche, telefonini, microfoni nascosti ed altri marchingegni. Il tutto col pretesto di far concorrenza alle forze di polizia e alle autorità giudiziarie che, secondo la comune opinione, non sarebbero in grado di scoprire nessuna turpe magagna o nessun recondito peccatuccio senza il fondamentale apporto delle conversatrici televisive pomeridiane, validamente suffragate dal parere degli esperti appartenenti alla  compagnia stabile delle “teleospitate”: ex-soubrette, ex-divi e dive in pensione, direttori e direttrici di settimanali rosa, criminologici e psicologi, tuttologi e tuttologhe.  

 

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