Quante ne aveva viste nella vita! Parlo del nonno del mio amico Tizio, astioso nemico giurato di migranti, profughi, fuggiaschi, rifugiati e stranieri a qualsiasi titolo. Fossero di pelle bianco-latte o giallognola o nero-fumo con tutte le sfumature intermedie. Un nonno scorbutico e probabilmente matto che ce l’aveva soprattutto con quei poveracci che si ponevano alla ricerca di una nuova vita affrontando il mare, nonché l’ignoto, a bordo di vecchi pescherecci fuori uso, di barchette, barconi, natanti o palloni gonfiabili sin quasi a schiattare. Ma c’era un perché, o perlomeno doveva esserci, per tanto astio immotivato. Suo nipote Tizio era riuscito a ricostruirne la storia mettendo assieme i vaghi ricordi di suo padre a qualche chiacchiera confusa col nonno, in uno dei suoi rari momenti di ridotta obsolescenza. E infatti c’era un perché eccome: il vero motivo è che anche nonno Caio era stato migrante, anzi “emigrante”, un tempo si chiamavano così. Emigrante negli Stati Uniti d’America, intorno agli anni Venti, scodellato dalla nave nell’isola di Ellis, esaminato, targato e poi vomitato sulle banchine di New York, in mezzo al popolo silenzioso dei poveri alla ricerca del paradiso d’America, dove il più delle volte, ma non sempre, trovavano un inferno di fame e depravazione. Poi suo nonno era tornato in patria, non come vincitore ma come uno dei vinti del Nuovo Mondo, dove non ce l’aveva fatta a trovare la sperata fortuna.
Di New York ricordava poche cose. La confusione delle grandi vie grigio-azzurre, il lungo ponte che traversava la città dei grattaceli per tuffarsi nella solitudine interrotta delle periferie. E là, nei pressi del grande fiume, che sembrava il mare e di cui non ricordava nemmeno il nome, c’era la fabbrica che gli aveva dato lavoro. E nella fabbrica, in un recesso metallico, quasi una grande gabbia dalle pareti inviolabili, c’era “la Macchina”! Ma qui i suoi ricordi si annebbiavano: forse quella macchina assurda se l’era sognata o soltanto immaginata, o inventata una sera, quando, vinto dalla fatica e dal cattivo vino, si era addormentato sotto il cielo aperto, esponendosi alla pioggia delle polveri di stelle. Una macchina? Com’era la macchina?, chiedevano curiosi i nipotini, cioè il mio amico Tizio e i suoi due fratelli. Com’era quella macchina, fatta come? Grande, enorme, tutta nera, e da un lato la soglia, il grande uscio di ferro che si apriva a comando e a tempo. E ogni volta che la porta si apriva doveva cacciarci dentro il maiale. Un maiale? Sì, un maiale! Un maiale come il nostro porcello? No, un maiale molto più grande, panciuto, ribelle e rissoso come un grosso cinghiale, una spaventosa pelosa palla di grasso. E il maiale ci entrava? Ce lo spingevamo a forza, io con quell’altro sciagurato che era con me. Era questo il nostro lavoro. Poi il grande uscio si richiudeva e la macchina si metteva in moto. C’era un motore? Doveva esserci: una scarica fumigante, come quando il trattore deve affrontare una brutta salita. Ma non strillava quel baghino? Si, forse piangeva o meglio, lanciava urla stridule e acute, come fanno i maiali quando li ammazzano sotto Natale. O forse no, forse il porcello destinato al sacrificio lo avevano già ammansito, gli avevano dato quella che laggiù, ma anche da noi, un tempo veniva chiamata la “dòrmia”: una droga? Una roba loro, americana. E poi? E poi… e poi ecco il prodigio: dall’altra parte della macchina, lunga tre o quattro metri forse anche più, da un grande sportello su in alto un tubo scaricava, sul nastro di raccolta, che invece stava in basso, una caterva di salsicce, belle grosse, una dopo l’altra, a ritmo continuo, profumate di pepe, garofano, o forse di finocchietto selvatico, Col finocchietto, il pepe, il sale, insomma come le nostre? Sì, come le nostre, ma invece diverse.
Solo salsicce? Sì, solo salsicce, il grande maiale nero era diventato solo salsiccia. E il prosciutto, la lonza, i fegatelli, le costarelle? Boh, chissà dove andavano a finire… E dove andavano a finire gli ossi, gli scarti? Dal tubo venivano fuori solo salsicce, di quelle americane, belle, larghe e lunghe più delle nostre, e di colore rosa. Mi sembra di vederle… Buone anche da mangiare così, da crude, appena venute fuori, senza bisogno di arrostirle sul carbone...
E qui finiva il racconto del nonno emigrante. Poi il nonno si perdeva per i meandri della sua precoce demenza senile e i nipoti, un po’ crudeli, finivano per lasciarlo solo. Qualche anno più tardi il mio amico Tizio e i suoi fratelli avrebbero appreso che quella demenza senile non era da imputarsi al troppo bere, o alla eccessiva fatica, ma solo a una malattia vera e propria, che aveva un nome straniero, l’Alzheimer.
Perché il nonno di Caio era tornato in patria così presto, senza aver la pazienza di costruirsi un avvenire, com’era successo a tanti, all’origine di quel popolo di italo-americani, professionisti, industriali, attori o semplicemente mafiosi, che occupa tuttora una fetta non trascurabile del gotha americano? Di questo il vecchio non parlava, forse non osava confessarlo, nemmeno a se stesso. Perché in realtà si era reimbarcato da clandestino, emigrante alla rovescia: insomma era fuggito.
Nello stesso giorno – o forse un paio di giorni prima, forse anche tre - dalla grande gabbia dov’era piazzata la macchina sputasalsicce si era improvvisamente dileguato anche il giovane irlandese che aiutava l’italiano a spingere i porcelli renitenti dentro il terrificante inesorabile uscio nero. Si trattava di un irlandese, emigrante anche lui ma ormai stagionato da alcuni anni nella grande mela. Un tipo arrogante, che lo trattava più da schiavo che da dipendente, sempre pronto a redarguirlo, a rimbrottare quello stupido paisano e canzonarlo per le sue sghembe parole compitate a fatica nella lingua del luogo, a beffeggiarlo per la sua ancestrale fedeltà al pane e al vino. E a lui, rozzo emigrante italiano, sembrava amaro e anche ingiusto, esser continuamente ripreso dall’irlandese per quel suo muoversi da contadino, sembrava iniquo trangugiare senza reagire le irrisioni e gli insulti – paisano, terrone, mafioso, mano nera, guappo, dago, guinea, wop, greaseball - mentre la macchina straordinaria continuava imperterrita a inghiottire maiali e a vomitare salsicce, tutte meticolosamente uguali. E un bel giorno quel bieco caporale, o meglio collega di fatica, era sparito. E il nonno del mio amico si era ritrovato solo. In ditta avevano chiesto di questa improvvisa scomparsa. Si erano dati da fare per venirne a capo: sparito, dove, quando, perché? Lo avevano cercato: forse quel piccolo caporale aveva ricevuto un’offerta migliore e se ne era andato senza neanche avvertire i padroni, ritirare i soldi, ringraziare. Accanto alla macchina era rimasto solo il nonno del mio amico che, pur di non perdere il lavoro, aveva garantito di farcela da solo a cacciare i maiali dentro lo sportello maledetto, magari spingendoli da dietro a tutta forza, tramortendoli se strillavano troppo forte perché la “dòrmia” non aveva fatto effetto.
Nessuno
degli addetti al rullo scorrevole che, giù a valle, inscatolavano le salsicce si
era accorto che un tal giorno la produzione di salsicce si era fatta più intensa,
e avevano dovuto addirittura aumentare la velocità del nastro che le portava
via, tanto il fiotto di salsicce si era
fatto tempestoso: salsicce tonde e rosa, da impacchettare e far giungere ai
tanti luoghi di smaltimento, negozi, bar e quei nuovi grandi magazzini in
costante aumento dappertutto. Salsicce sempre più numerose, come se i maiali
fossero stati due. Suo nonno era fuggito poco dopo per reimbarcarsi.
Curiosa conclusione della vicenda: per un’inspiegabile usanza familiare, né il nonno, né suo figlio, e nemmeno il mio amico Tizio, suo nipote, mangiavano insaccati di suino. Forse il prosciutto sì. Mai salsicce! Chissà perché questa strana fobia!
LEANDRO CASTELLANI