EDMUND PURDOM
(1924-2009)
Alto,
molto compito, vestiva come ormai si vestono tutti, jeans e felpa, dal
professionista al metalmeccanico. In tram, in autobus, fra la gente, nessuno
ormai era in grado di riconoscere in quel signore attempatello ma ancora
aitante il divo hollywoodiano protagonista del primo colossal in cinemascope,
quel Sinuhe l’egiziano che mi aveva letteralmente affascinato da ragazzo,
quando era dovuto andare a vederlo in un cinema di Pesaro perché nella mia
città il cinemascope non era ancora arrivato. E poco dopo lo avevo ammirato in
quello strano pastiche tipo musical tratto da un’operetta di Wilhelm Meyer
Foster, Il principe studente. In tutti e due i casi Purdom era stato un
fortunato sostituto di due “grandi” impossibilitati a ricoprire quei signori
ruoli: Mario Lanza nel Principe studente
e Marlon Brando in Sinuhe. Lanciato,
lanciatissimo, già allievo preferito di Laurence Olivier, secondo marito di
Linda Christian, la mamma di Romina Power, come mai era caduto dall’empireo
delle epopee hollywoodiane alla suburra degli italici polpettoni?
Era
finito suo malgrado sulle prime pagine dei rotocalchi per la tempestosa
relazione con Linda Christian (già moglie di Tyrone Power), sposata nel 1962 e
da cui avrebbe divorziato un anno dopo. L'eco dello scandalo – consumato in
Europa - arrivò fino in America dove la Warner, in un sussulto di moralità,
rescisse il suo contratto per “indegnità morale”. Così, dopo un inizio
folgorante, era stato un po’ ridimensionato a far l’eroe del cinema d'avventura
che si girava qui da noi (Salambo, Nefertite, L'ultimo zar, Solimano). E
aveva finito col trasferirsi definitivamente in Italia. Da allora il nostro
paese era diventata la sua seconda patria nella quale avrebbe svolto gran parte
della sua attività con film 'peplum' e pellicole 'B Movie' (in totale Purdom ha
recitato in più di 80 film).
Io
lo conobbi e frequentai come speaker inglese per alcuni miei documentari, per i
quali metteva in campo la sua squisita, raffinata dizione.
Ma
la sua più autentica vocazione era un’altra. Era un altro il suo lavoro
preferito per cui era molto ricercato: il mestiere del “fonico”, registrare
concerti classici e voci di raffinati cantori. “Non ce ne vogliono tanti di
microfoni come pensa qualcuno – mi
diceva – tutto sta come disporli.” Una volta mi confidò che aveva escogitato un
sistema per trasformare le vecchie registrazioni mono in registrazioni stereo,
ma il suo brevetto era stato osteggiato dalle grandi case discografiche che ci
avrebbero rimesso un sacco di soldi dovendo rinunciare a nuove incisioni.
Mentre registrava i suoi speakeraggi Edmund riusciva a
controllare la voce e ad accorgersi del minimo errore di intonazione o di resa.
Registravamo in una piccola saletta in via Taranto, poi andavamo a piedi alla
fermata dell’autobus, un saluto e alla prossima.
Forse non amava più il cinema, non lo ricercava quasi
più, ma quando veniva scritturato per piccole mediocri parti ci si dedicava con
assoluta professionalità ed estenuante perfezionismo. Anche se di solito era
cooptato per discutibili imprese, tipo Dracula accanto a Fantozzi.
Fui felice d’averlo come Marchese Rattazzi nel mio Don Bosco.
Se la cavò – superfluo dirlo – alla grande, anche se per quel piccolo ruolo
risultava un po’… ingombrante. Quando si doppiò nella sua lingua non perse
l’occasione di lamentarsi delle voci di altri doppiatori che definì
“sgradevoli”. Fu il mio ultimo incontro con il grande Sinuhe, l’egiziano della
mia infanzia.
(Leandro Castellani)