venerdì 16 dicembre 2016

IO E... EDMUND PURDOM



EDMUND PURDOM
(1924-2009)

Alto, molto compito, vestiva come ormai si vestono tutti, jeans e felpa, dal professionista al metalmeccanico. In tram, in autobus, fra la gente, nessuno ormai era in grado di riconoscere in quel signore attempatello ma ancora aitante il divo hollywoodiano protagonista del primo colossal in cinemascope, quel Sinuhe l’egiziano che mi aveva letteralmente affascinato da ragazzo, quando era dovuto andare a vederlo in un cinema di Pesaro perché nella mia città il cinemascope non era ancora arrivato. E poco dopo lo avevo ammirato in quello strano pastiche tipo musical tratto da un’operetta di Wilhelm Meyer Foster, Il principe studente. In tutti e due i casi Purdom era stato un fortunato sostituto di due “grandi” impossibilitati a ricoprire quei signori ruoli: Mario Lanza nel Principe studente e Marlon Brando in Sinuhe. Lanciato, lanciatissimo, già allievo preferito di Laurence Olivier, secondo marito di Linda Christian, la mamma di Romina Power, come mai era caduto dall’empireo delle epopee hollywoodiane alla suburra degli italici polpettoni?
Era finito suo malgrado sulle prime pagine dei rotocalchi per la tempestosa relazione con Linda Christian (già moglie di Tyrone Power), sposata nel 1962 e da cui avrebbe divorziato un anno dopo. L'eco dello scandalo – consumato in Europa - arrivò fino in America dove la Warner, in un sussulto di moralità, rescisse il suo contratto per “indegnità morale”. Così, dopo un inizio folgorante, era stato un po’ ridimensionato a far l’eroe del cinema d'avventura che si girava qui da noi (Salambo, Nefertite, L'ultimo zar, Solimano). E aveva finito col trasferirsi definitivamente in Italia. Da allora il nostro paese era diventata la sua seconda patria nella quale avrebbe svolto gran parte della sua attività con film 'peplum' e pellicole 'B Movie' (in totale Purdom ha recitato in più di 80 film).
Io lo conobbi e frequentai come speaker inglese per alcuni miei documentari, per i quali metteva in campo la sua squisita, raffinata dizione.
Ma la sua più autentica vocazione era un’altra. Era un altro il suo lavoro preferito per cui era molto ricercato: il mestiere del “fonico”, registrare concerti classici e voci di raffinati cantori. “Non ce ne vogliono tanti di microfoni come pensa qualcuno  – mi diceva – tutto sta come disporli.” Una volta mi confidò che aveva escogitato un sistema per trasformare le vecchie registrazioni mono in registrazioni stereo, ma il suo brevetto era stato osteggiato dalle grandi case discografiche che ci avrebbero rimesso un sacco di soldi dovendo rinunciare a nuove incisioni.
Mentre registrava i suoi speakeraggi Edmund riusciva a controllare la voce e ad accorgersi del minimo errore di intonazione o di resa. Registravamo in una piccola saletta in via Taranto, poi andavamo a piedi alla fermata dell’autobus, un saluto e alla prossima. 
Forse non amava più il cinema, non lo ricercava quasi più, ma quando veniva scritturato per piccole mediocri parti ci si dedicava con assoluta professionalità ed estenuante perfezionismo. Anche se di solito era cooptato per discutibili imprese, tipo Dracula accanto a Fantozzi.
Fui felice d’averlo come Marchese Rattazzi nel mio Don Bosco. Se la cavò – superfluo dirlo – alla grande, anche se per quel piccolo ruolo risultava un po’… ingombrante. Quando si doppiò nella sua lingua non perse l’occasione di lamentarsi delle voci di altri doppiatori che definì “sgradevoli”. Fu il mio ultimo incontro con il grande Sinuhe, l’egiziano della mia infanzia. 
(Leandro Castellani)




mercoledì 7 dicembre 2016

IO E ALBERTO LUPO



ALBERTO LUPO
(1924-1984)

Negli anni Sessanta-Settanta fu il personaggio più popolare della nostra tv, posizione confermata da un referendum fra i telespettatori. Merito soprattutto della Cittadella (1964) di Cronin-Majano in cui Alberto era il dottor Manson, eroe dei minatori, traviato dal successo ma riconquistato a una sofferta rettitudine.
Un volto singolare, caratterizzato da quelle due ciglia spesse e nerissime, una notevole presenza scenica e una voce molto particolare, bassa, un po’ sgranata, sensuale, la voce con cui avrebbe modulato il celeberrimo duetto Parole parole… (1971)  con la grande Mina, nonchè la poesia  Se  di Kipling.
Quella voce e la sua capacità di farsi seguire, di comunicare,  l’avevo già scoperta io, in anteprima. Negli anni Sessanta, per i documentari narrativi ai quali mi dedicavo, dapprima come ghost director e poi come autore-regista, si usavano di solito due voci, una “fredda” per le parti descrittive o scientifiche, una “calda” per quelle narrative. Per queste seconde il mio speaker privilegiato era Riccardo Cucciolla, principe dei doppiatori e ottimo attore. Ma per la Storia della bomba atomica da presentare al Prix Italia 1963 - che poi vinsi - feci ricorso ad Alberto che impiegai successivamente in altre mie inchieste.
Del resto aveva iniziato la carriera come “voce radiofonica”. Fu proprio lui a raccontarmelo. A Genova, dove condivideva il leggio, ma da ultimo arrivato, con uno speaker d’origine tedesca, voce perfetta e metallica quanto fredda e impersonale, il quale torceva il naso di fronte alle grossolane – secondo lui – esibizioni del novellino, pronosticandogli un breve futuro: “con quella voce sporca dove vuole andare?” Caso  singolare a quello speaker dalla voce corretta quanto fredda e impersonale – di cui ometto il nome – avevo affidato le “parti scientifiche” della stessa inchiesta.  
Dal punto di vista umano, una persona come Alberto, simpatico ed estroflesso, amico di tutti, aveva due soli difetti: fumatore accanito e accanito consumatore di caffè. “Ne prendi troppi !” -  gli obbiettavo – “Ma me li faccio fare lunghi, così fanno meno male.” Gli tolsi l’illusione: “Guarda che la caffeina è la stessa!”
Popolarissimo come attore di sceneggiati (i gialli di Francis Durdbridge, 1970-71), ricercato come “voce”, Alberto sarebbe diventato anche un conduttore garbato ed elegante accanto al fenomeno Mina negli spettacoli del sabato sera (Teatro 10, 1971) diretti da Antonello Falqui. Solo il cinema lo respinse, eccezion fatta – forse – per  Il sicario di Damiani, 1960. Ma in quegli anni la cosiddetta “Settima Arte” mostrava una sorta di spocchiosa idiosincrasia nei riguardi degli attori televisivi e, con pochissime eccezioni, li relegava, se del caso, in prestazioni insignificanti.
Chiudo con un aneddoto: a tal punto la voce di Alberto si era “saldata” alle mie inchieste che, quando mi sposai nella cattedrale della mia città, molti presenti continuarono a ripetere agli assenti che c’era anche Alberto Lupo, garantito!, lo avevano visto. Potere della suggestione!
Poi, nel 1977, arrivò l’ictus che spezzò la sua carriera e da cui non si riprese più. 
(Leandro Castellani)




lunedì 5 dicembre 2016

IO E LUCKY LUCIANO



LUCKY LUCIANO
(1897-1962)

In visita a Napoli – mi sembra fosse il 1950, Anno Santo – da alcuni parenti non eccessivamente frequentati ma molto simpatici. Ci vedevamo a intervalli un po’ dilatati. Noi quattro della famiglia Castellani, papà mamma mia sorella ed io, e loro, i napoletani, una turba. Ricordo la sera in cui Domenico detto Mimì, illustre direttore di manicomio e promesso a una cugina, ci portò tutti a cena – cioè noi quattro, zia Angelina con la Lina nonché con i due figli maschi e  relative consorti – nel ristorante più rinomato di Napoli, la terrazza a mare di Zì’ Teresa. Fu una cena epica, con Mimì che ordinava leccornie marinare e amministrava l’allegria, mentre i posteggiatori eseguivano da par loro una selezione dei più bei motivi napoletani, dalla tristezza struggente di “Scalinatella” alla furberia ammiccante di “Fatte fa ‘na foto”.
A un certo punto della serata il “coup de théatre”: nell’ampia terrazza del ristorante vidi avanzare un gruppetto di individui a precedere un ometto con gli occhiali dalla montatura dorata – si chiamavano già Rayban? - e un bell’abito scuro a righe, accompagnato da una bionda almeno venti centimetri più alta di lui, una bionda di quelle “da cinema”. Stavolta Mimì abbassò la voce stentorea per sussurrarci: è Lucky Luciano!
Allora non sapevo nemmeno chi fosse il fantomatico gangster esiliato dagli USA, ma mi colpì quel suo modo deciso e autoritario di farsi largo, la sua singolare estraneità, l’alone che sembrava circondarlo. Lo ricordo come allora, quei capelli divisi da un lato con una forte scriminatura, e soprattutto quegli occhiali dorati. 
Salvatore Lucania, detto Lucky Luciano, capo assoluto della mafia fra il 1931 e il 1945. Allontanato dagli Stati Uniti, era approdato a Napoli da dove continuava a dirigere il traffico internazionale della droga. E a Napoli, presso l'aeroporto di Capodichino, sarebbe morto d’infarto nel ’62.
Incontro da essere collocato tra schermi e ribalte? Sì e no. No, stando a un criterio rigoroso, sì a mettere in conto i numerosi film che  prima durante e dopo hanno immortalato gangster analoghi o forse ispirati a quel signore che aveva fatto colpo su di me, ragazzo in gita alla città del sole, dei parenti e di Pulcinella. 
(Leandro Castellani)