sabato 16 gennaio 2016

IL PADRONE DELLE FERRIERE



Borghesia batte aristocrazia 2-0
Ho il deprecabile vezzo di effettuare periodicamente una sana quanto impervia incursione fra i romanzi della seconda metà dell’ottocento, il secolo del romanzo per antonomasia. C’è  tutto un fortunatissimo filone di storie popolari che, ripercorso oggi, ci appare come un reperto archeologico di antiche passioni e di tramontati sentimenti. Mentre da noi in Italia impazzavano Carolina Invernizio, con le sue storie truci di povere derelitte e crudeli aristocratici, e Giovanni Ruffini, mazziniano anarcoide scrittore di buoni sentimenti, col suo “Dottor Antonio”, in Francia motivi di critica sociale riuscivano a penetrare anche in quei romanzi che oggi definiremmo rosa, come ne “Il romanzo di un giovane povero” (1958) di Octave Feuillet, non solo sagra dei buoni sentimenti. Ma la vetta è forse rappresentata da quel “Padrone delle Ferriere”, scritto da Geoge Ohnet nel 1882, che mi sono accinto a rileggere. Una storia di amori traditi e di amori ritrovati, una altalena, una “ginnastica” - per dirla col De Amicis - di sentimenti nobili e perversi, ma soprattutto una visione della società da cui risulta palese il conflitto fra un’aristocrazia ormai in declino e una classe borghese in evoluzione, forse più ambiziosa e spietata, ma che dell’aristocrazia eredita un senso dell’onore spinto agli estremi. Dei miti, o meglio dei valori, che il testo sottolinea oggi non ne è rimasto in piedi nessuno, sono stati tutto più o meno fagocitati dal tempo: la strenua fedeltà a un legame matrimoniale imposto, l’illibatezza delle fanciulle, la difesa quasi umoristica di un decoro da tutelare, un parossistico senso del dovere e così via. Al lettore di oggi forse risulta più moderna e condivisibile una storia medioevale rispetto a questo racconto che precede non di molto la storia dei nostri nonni: giovani aristocratiche altezzose ma di nobile sentire (Claire) e aristocratici libertini e mascalzoni (Gaston Bligny), borghesi ignoranti e un po’ cafoni (Moulinet con sua figlia Athénais) e borghesi integerrimi e incorruttibili. Come Philippe Delbray, il padrone delle Ferriere, un proto-industriale che si è fatto da sé, prototipo ante-litteram  del self-made-man: conquista la consorte che lo disprezza con il suo amore pudico e la sua adamantina rettitudine trasformando una sdegnosa e smorfiosetta aristocratica in un angelo del focolare nonché dei bisognosi. Una lettura quasi umoristicamente edificante ma in fondo piacevole, come un  placebo tranquillante dopo le spericolare immersioni nei thriller americano alla moda.

sabato 2 gennaio 2016

ANNO NUOVO IN TV ?



Veramente in forma dopo una settimana abbondante di febbre, tosse, influenza e chissà cos’altro. Il tutto nonostante il vaccino. Antibiotici e medicine varie a dosi industriali. La febbre resiste poi finalmente cessa. Posso cominciare l’anno di piena salute. In compenso la degenza forzata mi ha permesso di avere un campionario concentrato e variegato degli odierni programmi televisivi. Cosa diceva il vecchio Carosello: credevo che la mia biancheria fosse sporca finchè non ho visto la tua… o qualcosa del genere. Colpiscono alcune cose: lo sbraco di “immoralità quotidiana” proposta e imposta come regola morale, anzi come cogente via da seguire. Soprattutto le ragazze della nostra televisione – conduttrici, vallette, presenze varie - sembrano tutte “mignotte” (anche se lungi da me il pensare che lo siano): volgari, sbracate, si muovono come coatte, sculettano, ammiccano alla telecamera ostentando un trucco che – secondo loro - dovrebbe essere raffinato ed è solo pesante, inopportuno per un obbiettivo collocato a dieci centimetri di distanza.  Un minimo di miglior contegno nelle cosiddette giornaliste che peraltro indossano spesso e volentieri toilettes da serata al Casino di Montecarlo anche per leggere notizie di “nera” o generici comunicati. Va a finire che dovrò intraprendere un corso accelerato per fanciulle-tv a loro sicuro beneficio: come valorizzarsi e comportarsi davanti alla telecamera, come muovere le mani e così via…
Il massimo dell’abominio si rivela nelle cosiddette fiction nelle quali il livello di immaturità attoriale raggiunge il diapason. La “micromimica” diventa “grimace” o quelle che al cinema si chiamano – o si chiamavano – caccole. Volti improponibili – non già “presi dalla strada” come nel buon tempo che fu ma “presi dalla discoteca” e dai reality - , recitazione assente, dizione ridotta a uno sbrodolio di parole semisussurate. Il tutto - riteniamo - sorretto da due pregiudizi: che programmi fatti così possano attirare un fantomatico pubblico di giovani e che sia opportuno trarre ispirazione da storie reali, da problemi reali, possibilmente ad alto tasse di socialità. Due pregiudizi tutti da dimostrare.
Il cattivo “copiato” regna sovrano. Abbiano visto un frammento di una serie tv che si dice tratta da un’opera di Emile Zola, opportunamente ambientata negli anni Cinquanta, ma che in realtà è una sgraziata parodia di un incantevole serial che la BBC trasse dallo stesso romanzo. Ma non si è avuto nemmeno il pudore di citarlo.