Una
stazione ferroviaria, crocevia di esistenze che si consumano in una sosta,
lunga o breve, nell’attesa di un treno che passerà veloce come la vita. In
questa metaforica sosta tre personaggi reduci da un pranzo di nozze attendono il
treno che li riporterà alla vita-città. “Lui” spento farfallone un po’
immaturo, ragazzo non cresciuto; “lei”, ragazza un po’ nevrotica che sogna una
sistemazione e non solo sentimentale, sempre rimandata, e “l’amico” ottusamente
consolatorio. E qui, provocati dalla magica apparizione della piccola custode
delle esistenze, che spazza via i sogni con una vecchia scopa, risorgono i
fantasmi di vite vissute. E sono gli epitaffi poetici di Edgar Lee Master, gli
stessi che Thornton Wilder orchestrò circa ottant’anni or sono nella sua “Piccola
città”.
La
commedia alterna con sapienza il piano
in prosa dei dissidi a tre, che conserva una sua pungente e caustica autonomia,
con quello poetico dello Spoon River, anche se l’innesto non sempre è felice e forse
non è sufficiente ad operare la saldatura il personaggio simbolo della “custode”.
Ma
il risultato è sempre intelligente e i tre personaggi principali vivono
compiutamente: il “lui” fragile e un po’ schoizzoide di Luca Scapparone, “l’altro”
torpido e un po’ sminchionato di
Francesco Bonelli, che è anche felice autore e regista dello spettacolo,
la “lei” di Melania Fiore, appassionata e disillusa, ma pronta a rimettersi in
gioco. In particolare Melania disegna con la consueta e sempre più ricca sapienza
attorale il personaggio dolce-amaro di Adriana dosando con rara abilità gli
sconfinamenti nel grottesco, intendendo per grottesco la capacità di trasferire
o sublimare il dato reale in irreale o surreale, e viceversa di conferire al
dato surreale connotati di preciso realismo. Senza dimenticare la dolce
presenza di Desy Gialuz nel personaggio trait-d’union fra presenza e poesia.
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