sabato 9 gennaio 2021

SOLO CANZONETTE ?

Solo canzonette?

E se invece fossero la colonna musicale - autoprodotta - della nostra vita? Intendiamoci bene: la vita può prevedere e concedersi alcune pause musicali specifiche: ci sono gli appassionati di concerti e musica classica, con venticinque violini, altrettanti fiati e ottoni, più arpa, timpani, piatti  e altre diavolerie occorrenti di volta in volta. Ci sono i cultori dell’opera lirica, muniti o meno di libretti polverosi e voluminosi spartiti, attenti a interpretare e gustare i gorgheggi, do di petto e variazioni ad libitum di soprano tenori baritoni bassi e compagnia varia. Ci sono i fans del pop, fedelissimi ai concerti dei loro beniamini e alle musiche selvagge da riascoltare, nelle ore seguenti alla performance, sui loro aggeggi elettronici. Chiaro ?! Ma le canzonette sono altro, s’insinuano non volute né desiderate nel nostro presente, quando meno te l’aspetti, nell’ora dei ricordi e delle attese, risorgono nel modo più imprevisto: ti ci svegli al mattino con in testa quel motivetto, quel refrain, quella frase musicale che non se ne vuole andare e ti perseguita mentre fai la doccia, o mentre sali le scale del cosiddetto ufficio, o mentre mangi un panino in solitaria nell’ora d’intervallo. E sulle canzonette, più o meno nobili o autorali, costruisci la tua vita. La mia infanzia, ancora dominata dalle canzonette malinconico-sentimentali dei miei genitori: Come pioveva -  il must delle canzoni piovose, da Singing in the rain sino alla pioggia invocata da Modugno sul nostro amor - o veri e propri reperti archeologici, Pupo biondo, Fiocca la neve, Son tornate  a fiorire le rose, Ma l’amore no. La più antica canzone nostalgico-sentimentale che sento appartenermi è Signorinella, pallida dirimpettaia del terzo piano (ma qui il verso ha una sillaba di troppo e bisogna dire “al terzo piano”). Signorinella, con quel Don Cesare ormi rassegnato alla peraltro comoda e redditizia professione di notaio, e la pensée in mezzo al libro di latino da passare al figlio, ammesso che questi voglia impegnarsi con una lingua definitivamente morta.

Durante gli ultimi rantoli del secondo conflitto mondiale canzonette d’obbligo sostituirono quelle più usuali. E grazie alla Radio era giocoforza impararsele. C’erano quelle moderatamente allegre, a tempo di marcetta, più o meno sostenuta ma vagamente macabra, come quella dei sommergibili che partivano taciti ed invisibili, o quella dei battaglioni della morte creati per la vita, sempre in attesa che a primavera iniziasse la partita, quelle tristi come la sagra di Giarabub, che profetizzava la fine dell’Inghilterra, quelle un po’ stupide che prevedevano una voce femminile per dare il benvenuto a tale Camerata Richard o celebrare l’orticello di guerra, tristi appendici della stagione bellica che per me, appena bambino, passò veloce. Lo spento grigiore delle “canzoni del tempo di guerra” veniva fortunatamente interrotto dalla voce ritmata di Natalino Otto che poneva un quesito esiziale: se la nascita della gallina avesse o no preceduto quella dell’uovo e, da professore della classe degli asini, chiedeva ai suoi alunni dove si trovassero i Pirenei, peraltro arrestandosi per un fastidiosissimo sassolino nella scarpa che, pur facendogli tanto male, gli permetteva di ritmare un po’ all’americana. Poi - sempre nel corso della mia infanzia -  arrivarono le canzonette demenziali, ma allora non si chiamavano così. I cadetti di Guascogna in marcia verso Bologna, i Pompieri di Viggiù con relativi pennacchi rossi e blu. E la postina della Val Gardena, pubblica ufficialessa pronta a dispensare baci ma solo con la luna piena, cantata da una vocetta leggera nei programmi radiofonici dell’Orchestra di Armando Fragna, peraltro autore di alcuni di questi misfatti, tipo l’onorevole Bricolle candidato di Gioia del Colle. La consacrazione ufficiale delle canzonette sceme arrivò qualche anno più tardi con il successo sanremese di Papaveri e papere, destinata a divenire l’immagine assiomatica della politica e della società italiane.

Passarono gli anni e nella mia colonna sonora mattutina arrivarono Fred Bongusto, con le sue avventure estive racchiuse in un paio di strofe, e Bruno Martino che invece odiava l’estate fautrice di illusioni. destinate a sfumare prematuramente. Ma Carosone e Buscaglione mi invitavano a non prendere troppo sul serie questi fini dicitori di malinconie estive. E fra un pranzo a base di spaghetti pollo insalatina e una tazzina di caffè, possibilmente a Detroit o in quel di Riccione, scoprii anche un musicista romagnolo di vecchia data, che si era inserito di soppiatto nella mia colonna musicale, ma in modo discreto, senza stravolgerla. Quel Secondo Casadei che scoprii più tardi essere il nume tutelare della mia terra, non proprio la mia ma a meno di trenta chilometri più a nord: lontan da te non si può star!

Debbo ricorrere di nuovo alla doccia per rinfrescarmi il ricordo. Canzoni remote rese prossime da una sorta di memoria involontaria che te le ripropone, quasi a tradimento. I sentimental-nostalgico-malinconici di varia stazza e provenienza regionale, come quel Nino d’Angelo dal caschetto biondo, vestito con jeans e maglietta. E dalla sua maglietta passo a quella fina della fanciulla amata da Claudio Baglioni, tanto stretta che faceva indovinare tutto.

E i film? Non hanno cospirato e cospirano anche loro a nutrire il tuo campicello di irresistibili e pertinaci fiori musicali che non se ne vogliono andare? Quante canzonette e motivetti sono riuscite a inserire di soppiatto nella mia colonna sonora? L’immarcescibile canzoncina che, fra un passo di danza e l’altro, Gene Kelly continuava a cantare fregandosene della pioggia e dei raffreddori, la triste struggente melodia scritta da Marvin Hamlisch per Come eravamo, gli omaggi a Roma, mia città per oltre mezzo secolo, composti da Renato Rascel che le prometteva Arrivederci e corretti da Trovajoli che le suggerisce de nun fa’ la stupida.

Meno fischiettabile, meno adatto alla doccia o alle passeggiate nostalgiche il nostro solenne ma un po’ pletorico inno nazionale, con la testa della patria calzata a forza nell’elmo di tale Scipio. Peraltro noi italiani lo abbiamo capito da tempo, sostituendolo di fatto con un altro, quell’inno alla libertà, alla libera voluttà di colorarsi mani e  faccia di blu per confondersi con il cielo. Insomma Volare. Ma un sogno così non ritornerà più! Nonostante due grandi Lucio – Battisti e Dalla - abbiano cercato di egemonizzare il nostro fabbisogno di musica e sogni!

Leandro Castellani

 

domenica 3 gennaio 2021

SODOMA & CAMORRA

 

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Nel 2010, quasi di soppiatto, un amico autopubblicò per mio conto su Lulù lo strano racconto satirico “Sodoma & Camorra” con il sottotitolo “ovvero come imparai a non angosciarmi e ad amare la TV”, A dieci anni di distanza mi è venuta voglia di andarlo a ripescare: ecco qui di seguito una nota e l’Incipit: 

Un grottesco quasi italiano, un racconto al vetriolo sulla straordinaria avventura di un certo Abramo che l’Essere Superiore avverte di salvarsi dal disastro totale – fiamme e lapilli – in procinto di abbattersi sulla tivù.

INCIPIT 

“L’annuncio gli era arrivato nella maniera meno solenne possibile: un SMS, un messaggino, comparso di botto sul cellulare. Di provenienza indefinita, ma perentorio, apodittico. Non c’era da dubitare che giungesse da un essere importante, anzi dall’Essere Supremo. Preceduto e seguito da un insolito jingle che faceva pensare allo Zarathustra di Strauss e ai Carmina Burana di Orff, i due brani musicali più assimilabili alle trombe del Giudizio. Diceva il messaggio: “AFFRETTATI A DARE LE DIMISSIONI E AD ABBANDONARE RADIOTELEVIP PERCHE’ IO SPEGNERO’ LE SUE INIQUITA’ SOTTO UN DILUVIO DI FUOCO!”

COME SODOMA E GOMORRA?, aveva chiesto Abramo, digitando sollecitamente. Risposta di una sola parola:  ESATTO!”

E il romanzo segue il nostro sventurato o fortunato protagonista fra divi e divette, conduttori e sponsor, produttori e faccendieri, senza trascurare i politici, i pubblicitari, i magistrati eccetera. Il tutto senza il minimo riferimento, assolutamente da escludersi, a istituzioni fatti ditte programmi e tanto meno personaggi realmente esistenti. Con scrittura polemica e divertita, l’Autore ci immerge in un mondo assurdo quanto verosimile.