Finalmente trillò la soneria del suo
smartphone. E sul display comparve la dolce immagine di sua moglie. Gliel’aveva
scattata lui quella foto: sorridente, un po’ sbarazzina, colta alla sprovvista
ma non di meno femminilmente accorta nel nascondere qualche ruga appena
incipiente accanto agli occhi, le cosiddette zampe di gallina, o a
drappeggiarsi il collo con un vezzoso foulard. Sua moglie, sempre bellissima
come nel primo giorno del loro incontro, molti anni fa, con quella solidità di
sentimenti e volontà di agire che era stato il suo salvagente in più di
un’occasione:
-
Anna,
finalmente, come stai?
-
Sto
bene, tranquillo...
-
Dove
ti trovi?
-
Dove
vuoi che mi trovi? A casa, un po’ triste.
-
Triste,
perché?
-
Come
perché!
Anche lei forviata da quell’assurdo
trasloco? Ma nel caso di sua moglie sembrava non ci fossero stati disguidi.
Nella sua voce non intuiva traumi, particolari disagi, solo una sorta di
tristezza ben rattenuta:
-
E
Gigetto?
-
Gigi
è a scuola.
-
Tutto
normale?
-
Certo.
Siamo tristi. Ma che vuoi? Stiamo riprendendo la solita vita.
La solita vita. Tutto normale. Per
lui nulla era normale se non sapeva nemmeno
ritrovare la strada di casa. Eppure sentiva in Anna un empito di inconsueta
tristezza che le sue sobrie parole non riuscivano a nascondere. Anna stava
soffrendo, stava nascondendogli qualcosa. L’avevano separata da lui con quello
strano, assurdo, immotivato, trasloco. Perché era così parca nel rispondergli,
usando battute vaghe, da giorno qualunque? Doveva sapere:
-
Come
la solita vita, come normale, non ti chiedi cosa mi sia successo? Il trasloco…
Non udì più la voce di sua moglie.
Una caduta della linea, una zona d’ombra del cellulare. Provò a ripetere la
chiamata spostandosi di luogo, ma il smartphone di sua moglie continuava a
tacere. Quel tutto normale aveva contribuito a impensierirlo ulteriormente.
Forse era successo tutto in un tempo reale talmente breve che sua moglie poteva
non esserne nemmeno accorta. Non ancora? Il bambino a scuola, lei a riassettare
la casa, avrebbe aspettato soltanto che la sua giornata lavorativa fosse
terminata e atteso il normale rientro di suo marito dal lavoro. Forse stava
addirittura preparandogli la cena. Forse il trasloco, nel suo caso fortunato,
si era verificato senza errori o disguidi. Chissà se anche nel suo cielo
continuavano a volare quegli strani inquietanti animali preistorici che lo
avevano messo sull’avviso, se anche a lei era successo di accendere casualmente
la tv per ascoltare quello sconcertante comunicato? Quindi stava a lui porre
rimedio al disguido, andare alla fonte per evitare che tempi, ricordi, luoghi
diversi si sovrapponessero prima o poi in modo così bizzarro. Da quando aveva
abbandonato il set di suo padre, quel mondo silente e in bianco e nero, quanto
tempo poteva essere trascorso? E quanta strada aveva coperto quello strano autobus
dal quale era disceso? E adesso dove si trovava? Vedeva ergersi, quasi sulla
linea dell’orizzonte, il pinnacolo ferreo della Tour Eiffel, dominante sul
solito mare di case e palazzi. Come? Da Marsiglia quel vecchio bus era arrivato
a Parigi in pochi minuti? Ma era proprio Parigi? Nelle sue numerose visite alla
“ville Lumière” non si era mai accorto che a poca distanza dalla Torre, anzi
quasi dirimpetto, si ergesse il cosiddetto Pirellone di Milano, un
minigrattacielo secondo i moduli attuali, che sembrava più antidiluviano della
stessa torre. Se avesse potuto raggiungere lo pseudo Pirellone milanese in
versione parigina… Troppo lontano, Parigi come Milano. A piedi non ce l’avrebbe
mai fatta. Avrebbe avuto bisogno di Peter Fonda con il suo chopper. Per il momento
poteva solo spostarsi di qualche metro alla ricerca di una zona dove gli fosse
possibile riattivare il collegamento telefonico. Le parole di sua moglie lo
avevano rassicurato – in famiglia tutti bene – e per qualche verso avevano
destato in lui nuove ansie, nuovo desiderio di sapere. Provò a digitare il
tasto per riascoltare le ultime frasi, un po’ sibilline, della telefonata
precedente, a esplorare se ci fosse qualche nuovo messaggino. Tutto invano. Non
gli restava che abbandonare il prima possibile quel posto maledetto, nei
dintorni di Marsiglia, fra Parigi e Milano, dove la vecchia corriera lo aveva
improvvidamente scaricato. Chiedere un passaggio. Ma chi poteva mai passare per
quella strada decisamente secondaria, quasi un viottolo, lontana dalle vie
canoniche, ufficiali, transitate da mezzi pubblici o privati? Un altro disperato
come lui oppure la forza pubblica, poliziotti, carabinieri, vigilantes? Poteva
solo camminare e sperare. Strano che non sentisse ancora gli stimoli della fama
e della fatica. Merito di quel trasloco affrettato e pasticcione che aveva
alterato anche le ore dei pasti e dei bisogni fisiologici? Che sventura
trovarsi alla mercé di alieni pressappochisti, ignoranti e distratti! E sì che
aveva sempre sentito lodare – stando alla narrativa di fantascienza – i poteri
mentali e il grado d’intelligenza dei cosiddetti marziani, esseri estremamente
più evoluti di noi se erano riusciti a contattarci, mentre noi terrestri,
nonostante le stazioni spaziali e tutto il resto, non ce l’avevamo mai fatta.
Il volo
A bordo di un
aereo: da dove verso dove? Un grande aereo di linea con quella miriade di
seggiolini che costringono i passeggeri a subire promiscuità e non desiderate
intimità. Ma quel suo aereo era stranamente vuoto. Un aereo così vuoto lo aveva
incontrato solo una volta, in volo da Londra a Inverness. Si prevedeva tempesta
e lo stesso equipaggio era renitente. A bordo solo lui con due compagni di lavoro,
nonché una hostess sorridente quanto atterrita che ostentava un sorriso
autoimposto che avrebbe dovuto rincorarci e moltiplicava la nostra apprensione.
Eravamo finalmente atterrati all’aeroporto irlandese durante una furiosa
tempesta di neve. Stavolta no. Il volo era tranquillo, non sentiva neppure il
rombo dei motori e dal finestrino
riusciva a scorgere solo un fitto mantello di nubi lanose a ricoprire qualsiasi
traccia di orizzonte. Un volo cieco verso un paese sconosciuto. Come aveva
fatto a ritrovarsi a bordo se non ricordava nessun imbarco, nessun decollo…
Per qualche verso
quell’esperienza gliene ricordava un’altra vissuta a grandi intervalli di
tempo, quella del volo sognato. Gli era capitato diverse volte nel sonno di
sentirsi meravigliosamente dotato della capacità di sollevarsi da terra e
volare. E ne aveva approfittato per sorvolare progressivamente la sua casa, la
sua città, il pianeta, il mondo intero, annullando spazio e tempo oppure
trovando fra spazio e tempo quelle bizzarre coordinate suggerite dalla formuletta di Einstein. Planare,
sfiorare la terra e riprendere quota. Una magia da tappeto volante. Poi ogni
volta giungeva ineluttabile il risveglio
insieme all’ansia non appagata di ricominciare a vivere per vincere le
stoltezze, pesanti come macigni, del suo mondo, gente compresa. Ma ora, dove lo
avrebbe condotto quel volo sconosciuto. Dove sarebbe atterrato? Forse
nell’aeroporto semiabbandonato del suo paese, corroso dalla città che si era
espansa rodendone progressivamente i margini? Oppure in uno dei vecchi
aeroporti più frequentati a suo tempo, Linate o Le Bourget o Ciampino? Ma ora
la coltre bianca e compatta delle nubi che si era come interrotta, o meglio era stata perforata da una creatura che
ormai aveva appreso a riconoscere. Uno pterodattilo dalle lunghe ali membranose
volava come di conserva, quasi facendo da scorta al suo velivolo senza
passeggeri. E se avessero finalmente compreso l’abbaglio e stessero
riportandolo a casa, dai suoi?
La biblioteca
E raggiunse la biblioteca, senza
chiedersi come e perché. Ma quella non era una biblioteca ma piuttosto un
magazzino, un deposito di scatoloni da trasloco, quelli di cartone pesante,
sovrapponibili, che i facchini ormai non trasportano più a braccia ma
aiutandosi con le gru, i muletti e altre diavolerie.
Si ritrovò circondato dagli scatoloni
con la scritta Libri. Come ci era capitato là in mezzo? E se i solerti marziani
- o chi per loro - fossero riusciti, dopo tanti equivoci e quiproquo, a
catapultarlo finalmente fra i suoi tesori? Doveva accertarsene. Aprì il primo
scatolone con un sentimento misto fra spasmodica aspettativa e certezza di un’ennesima disillusione. Meraviglia!
Erano proprio le sue cose... Ma allora, a poca distanza o forse allo stesso
piano superiore, doveva esserci il resto di casa sua. Non resistette alla
voglia di chiamare sua moglie, i suoi figli, a gran voce… Uno sconfortante
silenzio! Forse la vecchia scaletta a pioli che scendeva dal piano di sopra era
stata rimossa. Sul soffitto del magazzino era chiaramente visibile il pertugio richiuso
con uno strato di legno o di cartongesso. Corse ad aprire la serranda che
collegava il magazzino all’esterno: lo stesso panorama desertico tipicamente
americano, arido e brullo, ma stavolta seminato di monconi di vecchie mura e di
rocce bizzarre, da film di John Ford. Mancavano solo i cavalli selvaggi, e
mancava il chopper di Peter Fonda.
Si dedicò ad aprire gli scatoloni, un
po’ a casaccio, alla ventura, ammassando i libri uno sull’altro e poi a terra,
sul tratto di pavimento ancora libero. Sì, c’erano tutti, almeno dovevano
esserci: i libri di cinema, da lui tanto amati, acquistati uno ad uno quando
gli avanzava in tasca qualche lira. Le vite degli attori, a cominciare da
quelli preferiti. Le varie versioni della storia di Totò, principe dei
commedianti e re dei mendicanti, e poi le biografie che enfatizzavano la vita e
l’arte di Eleonora Duse, una diva che non sapeva estraniarsi dai suoi
personaggi – come avrebbe suggerito un brechtiano rigoroso – ma che ogni volta
pagava pegno per la passione e la sofferenza di “raccontarsi”, scontando con le
ferite della sua psiche i dilemmi e le crisi dei suoi personaggi. E poi c’erano
i romanzi, quelli più amati, Charles Dickens che sua mamma gli aveva insegnato
a conoscere da ragazzo, con il suo mondo incantevole di figure e figurine
delineate con umorismo misto a tristezza, i romanzi ingarbugliati di Wikie
Collins con quei personaggi disperati non dissimili da quelli di Carolina
Invernizio, altra scrittrice che aveva amato, forse per far dispetto a chi la
considerava men che mediocre. I libri che lo avevano aiutato nel suo lavoro e
che, volta a volta, aveva dovuto studiare e digerire pagina dopo pagina. Le
memorie dei viaggi che gli avevano fatto conoscere più di mezzo mondo, quasi
sempre acquistati perché il ricordo della bellezza non andasse perduto ma
perdurasse anche dopo l’abbandono di quei luoghi.
Molti libri li aveva acquistati, anno
dopo anno, in un piccolo paese sperduto nella campagna francese che, prima di
scomparire per il totale abbandono degli abitanti, aveva deciso di
trasformarsi. E le sue stalle, i suoi fienili, le sue modeste abitazioni erano
divenuti altrettanti ricoveri di libri usati, offerti al volonteroso visitatore
per pochi franchi, poi divenuti pochissimi euro. Il paese si chiamava
Fontenay-la-Joute.
Sì, tutti i suoi libri erano lì, in
quegli scatoloni da trasloco. Avrebbe dovuto spolverarli e catalogarli di nuovo
prima di sistemarli negli scaffali. Sì, ma dove? Li avrebbe mai ritrovati i
suoi scaffali odorosi di legno che coprivano interamente le pareti del suo
studio? Sino a quando? Sino a ieri, a una settimana fa, o in un altro secolo?
Si affacciò un’ultima volta alla
finestrella che gli offriva l’insolito panorama degli Stati Uniti d’America. O
di una loro copia fedele. Nel cielo avevano ripreso a volare quei macabri
uccelloni preistorici che pensava esistessero ormai solo in qualche film di
Spielberg oppure, ma ridotti a scheletri fossili, in qualche museo di storia
naturale, come quello bellissimo che aveva visitato a Londra con sua moglie e
suo figlio. E suo figlio aveva voluto che, al reparto souvenir, comprasse un
secchiellino di latta rossa con su scritto il logo del Museo: ci potrai mettere
le tue penne, e le matite…
Nell’angolo più segreto del
magazzino, seminascosta dietro gli scatoloni da imballo, trovò la bicicletta,
la vecchia bici di quando era ragazzo e suo padre gliel’aveva regalata
acquistandola a prezzo stracciato da un parente facoltoso che se n‘era fatta
una nuova. Quella bici aveva sostituito la biciclettina rossa, vinta a un
concorso di figurine Buitoni, che gli era servita sino a quando le sue gambe
erano diventate troppo lunghe, Così era passato a questa nuova. Nuova si fa per
dire, specie ora, intaccata qua e là dalla ruggine del tempo, dell’umidità e
dell’abbandono. La divincolò a fatica dall’incombente architettura di scatoloni
e riuscì a spingerla sino all’uscita. Provò ad inforcarla, senza nemmeno curarsi
di richiudere la serranda, tanto quegli amati libri non li avrebbe concupiti né
tantomeno rubati nessuno, nell’epoca digitale che aveva giurato odio alla
carta, specie stampata. Li avrebbe ritrovati tutti là, neppure tirati fuori dagli
scatoloni. E poi, vista la stranezza di quel caotico trasloco siderale, quando
mai sarebbe riuscito a ritrovare lo stesso magazzino!?
Si accorse di essere ancora in grado
di pedalare, forse più incerto sul manubrio, più debole sulle gambe. Ma le
ruote giravano e lo portavano lontano. E si ritrovò in una stradicciola di
campagna, irta di pietre e sassi che la rendevano impervia, analoga a quella
sorta di viale un po’ sbilenco che dal paese portava alla sua casa in campagna.
E dal viale deviò verso il bosco. Perché quello era il suo bosco, ne era
completamente sicuro! Il piccolo labirinto verde fatto di querce, di lecci, di
ornielli e di ambiti segreti che celavano piccolissime oasi di prato arruffato,
selvaggio, dove spuntavano spontanei, di stagione in stagione, i ciclamini, le
violette, i misteriosi gigli rossi dai pistilli velenosi e quelle bacche che si
gonfiavano a primavera sino a divenire dei piccoli palloncini e tu potevi divertirti a schiacciarli per farli
esplodere, provocando un piccolo scoppio, come quello che avresti ottenuto, da
adulto ma con ancora la voglia di giocare, facendo esplodere le boule degli
imballaggi di plastica. Un bosco segreto e incantato dove ogni anno, a ottobre,
sostavano di passaggio i colombacci. E suo padre con gli amici cacciatori
stavano all’erta per spararli. E lui li ritrovava belli arrostiti sul desco
casalingo, affogati nel guazzetto aromatizzato col finocchio selvatico, e c’era
da fare attenzione perché qualche pallino da caccia non ti finisse fra i denti.
Il suo bosco, trasferito anch’esso
tout court nel nuovo pianeta? Come avevano fatto? E se fosse stata soltanto
un’illusione di bosco, un’oasi olografica creata in quel deserto americano che,
stando alle scoperte precedenti, sembrava aver preso il posto dei familiari
orizzonti della sua patria. Con l’eccezione di quella rara sortita a Marsiglia e dintorni.
Ma se quel bosco era reale, allora
doveva essere in grado di ritrovare anche la sua casa, la sua famiglia, sua
moglie, i figli. Come fare? Affidarsi al caso, come era accaduto sin ora?
Sperare nel ritorno di Peter Fonda, l’eroe triste dei suoi anni giovanili, che
lo caricasse sul suo chopper e lo portasse via, sino alla soglia di casa sua?
Ma sarebbe mai tornato Peter? O anche la sua sortita era stata un casuale incontro
bizzarro, frutto di quel disordinato rapsodico allucinante trasloco?
E fu così che…
E fu così che incontrò il suo doppio.
Gli si presentò davanti, appena girato l’angolo, e non fece fatica a
riconoscerlo. Poteva riflettersi in lui come in uno specchio. Finalmente aveva
qualcuno con cui scambiarsi i dubbi, le ansie, a cui porre le domande senza
risposta, senza temere che potesse tergiversare, addurre scuse. Inventarsi
frottole per placare la propria e l’altrui coscienza. Era una situazione che,
in passato, gli era servita per scrivere
il suo primo racconto, pubblicato in elegante volumetto di poche pagine con la
copertina bianca con su la foto di un vecchio palazzo di paese. Il Tizio che
incontra se stesso, o meglio che può vivere due vite diverse, alternative, e
scegliere l’una o l’altra secondo il bisogno e la necessità. Nella prima si era
sacrificato e aveva cercato la morte ma nella seconda si era avviato verso un
prevedibile happy end, al fianco della persona che aveva scelto come compagna
di vita, o dalla quale era stato scelto.
Ma nel suo racconto l’incontro fra i
due se stesso era avvenuto sempre a rispettosa distanza. Solo una certa volta,
casualmente o inavvertitamente, a dispetto del destino che li voleva divisi, al
protagonista era capitato d’incontrare il suo simile e interferire nella sua
vita e nella sua sorte. Adesso no, ce l’aveva davanti:
-
Che
debbo fare?
-
E
che ne so? Se lo sapessi sarei un altro e non te.
Lapalissano, non faceva una grinza.
-
E
allora perchè sei venuto?
-
A
guarirti dalle illusioni. Sai benissimo, che non la ritroverai più la tua casa.
Che fra un mese, forse due, forse un anno, tua moglie ti dimenticherà, o almeno
il ricordo di te sarà meno lancinante, si trasformerà in qualcosa di dolce e di
remoto.
-
E
io?
-
E
tu continuerai a vagare in questo mondo diverso, a volte amico, a volte ostile.
A incontrare i tuoi ricordi, i luoghi del tuo passato, a dispiegare il tuo
vissuto.
-
Ma
non tornerò a casa?
L’altro io
tacque. Forse non lo sapeva neanche lui. Un altro io inquieto senza certezze e
senza prospettive. Altrimenti che doppio sarebbe stato?
-
Cosa
mi conviene fare?
-
Continua
a cercare, muoviti, non ti arrendere. E non guardare il cielo. Vi vedreste
soltanto quegli strani esseri alati.
-
Gli
pterodattili?
-
Li
chiami così tu? Noi defunti li chiamiamo angeli.
Lo lasciò andare.
O meglio il suo doppio scomparve, come scompare l’immagine da uno specchio che
cade a terra e si riduce in frantumi. E finalmente capì. E si rimise in
cammino.
fine