sabato 23 novembre 2019

IL TRASLOCO - terza e ultima parte

(Romanzo breve oppure racconto lungo di Leandro Castellani @2019: terza e ultima parte)

Finalmente
Finalmente trillò la soneria del suo smartphone. E sul display comparve la dolce immagine di sua moglie. Gliel’aveva scattata lui quella foto: sorridente, un po’ sbarazzina, colta alla sprovvista ma non di meno femminilmente accorta nel nascondere qualche ruga appena incipiente accanto agli occhi, le cosiddette zampe di gallina, o a drappeggiarsi il collo con un vezzoso foulard. Sua moglie, sempre bellissima come nel primo giorno del loro incontro, molti anni fa, con quella solidità di sentimenti e volontà di agire che era stato il suo salvagente in più di un’occasione:


-         Anna, finalmente, come stai?
-         Sto bene, tranquillo...
-         Dove ti trovi?
-         Dove vuoi che mi trovi? A casa, un po’ triste.
-         Triste, perché?
-         Come perché!
Anche lei forviata da quell’assurdo trasloco? Ma nel caso di sua moglie sembrava non ci fossero stati disguidi. Nella sua voce non intuiva traumi, particolari disagi, solo una sorta di tristezza ben rattenuta:   
-         E Gigetto?
-         Gigi è a scuola.
-         Tutto normale?
-         Certo. Siamo tristi. Ma che vuoi? Stiamo riprendendo la solita vita.
La solita vita. Tutto normale. Per lui nulla era normale se non sapeva  nemmeno ritrovare la strada di casa. Eppure sentiva in Anna un empito di inconsueta tristezza che le sue sobrie parole non riuscivano a nascondere. Anna stava soffrendo, stava nascondendogli qualcosa. L’avevano separata da lui con quello strano, assurdo, immotivato, trasloco. Perché era così parca nel rispondergli, usando battute vaghe, da giorno qualunque? Doveva sapere:
-         Come la solita vita, come normale, non ti chiedi cosa mi sia successo? Il trasloco…
Non udì più la voce di sua moglie. Una caduta della linea, una zona d’ombra del cellulare. Provò a ripetere la chiamata spostandosi di luogo, ma il smartphone di sua moglie continuava a tacere. Quel tutto normale aveva contribuito a impensierirlo ulteriormente. Forse era successo tutto in un tempo reale talmente breve che sua moglie poteva non esserne nemmeno accorta. Non ancora? Il bambino a scuola, lei a riassettare la casa, avrebbe aspettato soltanto che la sua giornata lavorativa fosse terminata e atteso il normale rientro di suo marito dal lavoro. Forse stava addirittura preparandogli la cena. Forse il trasloco, nel suo caso fortunato, si era verificato senza errori o disguidi. Chissà se anche nel suo cielo continuavano a volare quegli strani inquietanti animali preistorici che lo avevano messo sull’avviso, se anche a lei era successo di accendere casualmente la tv per ascoltare quello sconcertante comunicato? Quindi stava a lui porre rimedio al disguido, andare alla fonte per evitare che tempi, ricordi, luoghi diversi si sovrapponessero prima o poi in modo così bizzarro. Da quando aveva abbandonato il set di suo padre, quel mondo silente e in bianco e nero, quanto tempo poteva essere trascorso? E quanta strada aveva coperto quello strano autobus dal quale era disceso? E adesso dove si trovava? Vedeva ergersi, quasi sulla linea dell’orizzonte, il pinnacolo ferreo della Tour Eiffel, dominante sul solito mare di case e palazzi. Come? Da Marsiglia quel vecchio bus era arrivato a Parigi in pochi minuti? Ma era proprio Parigi? Nelle sue numerose visite alla “ville Lumière” non si era mai accorto che a poca distanza dalla Torre, anzi quasi dirimpetto, si ergesse il cosiddetto Pirellone di Milano, un minigrattacielo secondo i moduli attuali, che sembrava più antidiluviano della stessa torre. Se avesse potuto raggiungere lo pseudo Pirellone milanese in versione parigina… Troppo lontano, Parigi come Milano. A piedi non ce l’avrebbe mai fatta. Avrebbe avuto bisogno di Peter Fonda con il suo chopper. Per il momento poteva solo spostarsi di qualche metro alla ricerca di una zona dove gli fosse possibile riattivare il collegamento telefonico. Le parole di sua moglie lo avevano rassicurato – in famiglia tutti bene – e per qualche verso avevano destato in lui nuove ansie, nuovo desiderio di sapere. Provò a digitare il tasto per riascoltare le ultime frasi, un po’ sibilline, della telefonata precedente, a esplorare se ci fosse qualche nuovo messaggino. Tutto invano. Non gli restava che abbandonare il prima possibile quel posto maledetto, nei dintorni di Marsiglia, fra Parigi e Milano, dove la vecchia corriera lo aveva improvvidamente scaricato. Chiedere un passaggio. Ma chi poteva mai passare per quella strada decisamente secondaria, quasi un viottolo, lontana dalle vie canoniche, ufficiali, transitate da mezzi pubblici o privati? Un altro disperato come lui oppure la forza pubblica, poliziotti, carabinieri, vigilantes? Poteva solo camminare e sperare. Strano che non sentisse ancora gli stimoli della fama e della fatica. Merito di quel trasloco affrettato e pasticcione che aveva alterato anche le ore dei pasti e dei bisogni fisiologici? Che sventura trovarsi alla mercé di alieni pressappochisti, ignoranti e distratti! E sì che aveva sempre sentito lodare – stando alla narrativa di fantascienza – i poteri mentali e il grado d’intelligenza dei cosiddetti marziani, esseri estremamente più evoluti di noi se erano riusciti a contattarci, mentre noi terrestri, nonostante le stazioni spaziali e tutto il resto, non ce l’avevamo mai fatta. 

Il volo

A bordo di un aereo: da dove verso dove? Un grande aereo di linea con quella miriade di seggiolini che costringono i passeggeri a subire promiscuità e non desiderate intimità. Ma quel suo aereo era stranamente vuoto. Un aereo così vuoto lo aveva incontrato solo una volta, in volo da Londra a Inverness. Si prevedeva tempesta e lo stesso equipaggio era renitente. A bordo solo lui con due compagni di lavoro, nonché una hostess sorridente quanto atterrita che ostentava un sorriso autoimposto che avrebbe dovuto rincorarci e moltiplicava la nostra apprensione. Eravamo finalmente atterrati all’aeroporto irlandese durante una furiosa tempesta di neve. Stavolta no. Il volo era tranquillo, non sentiva neppure il rombo dei motori e  dal finestrino riusciva a scorgere solo un fitto mantello di nubi lanose a ricoprire qualsiasi traccia di orizzonte. Un volo cieco verso un paese sconosciuto. Come aveva fatto a ritrovarsi a bordo se non ricordava nessun imbarco, nessun decollo…
Per qualche verso quell’esperienza gliene ricordava un’altra vissuta a grandi intervalli di tempo, quella del volo sognato. Gli era capitato diverse volte nel sonno di sentirsi meravigliosamente dotato della capacità di sollevarsi da terra e volare. E ne aveva approfittato per sorvolare progressivamente la sua casa, la sua città, il pianeta, il mondo intero, annullando spazio e tempo oppure trovando fra spazio e tempo quelle bizzarre coordinate suggerite  dalla formuletta di Einstein. Planare, sfiorare la terra e riprendere quota. Una magia da tappeto volante. Poi ogni volta giungeva ineluttabile il risveglio  insieme all’ansia non appagata di ricominciare a vivere per vincere le stoltezze, pesanti come macigni, del suo mondo, gente compresa. Ma ora, dove lo avrebbe condotto quel volo sconosciuto. Dove sarebbe atterrato? Forse nell’aeroporto semiabbandonato del suo paese, corroso dalla città che si era espansa rodendone progressivamente i margini? Oppure in uno dei vecchi aeroporti più frequentati a suo tempo, Linate o Le Bourget o Ciampino? Ma ora la coltre bianca e compatta delle nubi che si era come interrotta, o  meglio era stata perforata da una creatura che ormai aveva appreso a riconoscere. Uno pterodattilo dalle lunghe ali membranose volava come di conserva, quasi facendo da scorta al suo velivolo senza passeggeri. E se avessero finalmente compreso l’abbaglio e stessero riportandolo a casa, dai suoi?

La biblioteca

E raggiunse la biblioteca, senza chiedersi come e perché. Ma quella non era una biblioteca ma piuttosto un magazzino, un deposito di scatoloni da trasloco, quelli di cartone pesante, sovrapponibili, che i facchini ormai non trasportano più a braccia ma aiutandosi con le gru, i muletti e altre diavolerie.
Si ritrovò circondato dagli scatoloni con la scritta Libri. Come ci era capitato là in mezzo? E se i solerti marziani - o chi per loro - fossero riusciti, dopo tanti equivoci e quiproquo, a catapultarlo finalmente fra i suoi tesori? Doveva accertarsene. Aprì il primo scatolone con un sentimento misto fra spasmodica aspettativa e  certezza di un’ennesima disillusione. Meraviglia! Erano proprio le sue cose... Ma allora, a poca distanza o forse allo stesso piano superiore, doveva esserci il resto di casa sua. Non resistette alla voglia di chiamare sua moglie, i suoi figli, a gran voce… Uno sconfortante silenzio! Forse la vecchia scaletta a pioli che scendeva dal piano di sopra era stata rimossa. Sul soffitto del magazzino era chiaramente visibile il pertugio richiuso con uno strato di legno o di cartongesso. Corse ad aprire la serranda che collegava il magazzino all’esterno: lo stesso panorama desertico tipicamente americano, arido e brullo, ma stavolta seminato di monconi di vecchie mura e di rocce bizzarre, da film di John Ford. Mancavano solo i cavalli selvaggi, e mancava il chopper di Peter Fonda.
Si dedicò ad aprire gli scatoloni, un po’ a casaccio, alla ventura, ammassando i libri uno sull’altro e poi a terra, sul tratto di pavimento ancora libero. Sì, c’erano tutti, almeno dovevano esserci: i libri di cinema, da lui tanto amati, acquistati uno ad uno quando gli avanzava in tasca qualche lira. Le vite degli attori, a cominciare da quelli preferiti. Le varie versioni della storia di Totò, principe dei commedianti e re dei mendicanti, e poi le biografie che enfatizzavano la vita e l’arte di Eleonora Duse, una diva che non sapeva estraniarsi dai suoi personaggi – come avrebbe suggerito un brechtiano rigoroso – ma che ogni volta pagava pegno per la passione e la sofferenza di “raccontarsi”, scontando con le ferite della sua psiche i dilemmi e le crisi dei suoi personaggi. E poi c’erano i romanzi, quelli più amati, Charles Dickens che sua mamma gli aveva insegnato a conoscere da ragazzo, con il suo mondo incantevole di figure e figurine delineate con umorismo misto a tristezza, i romanzi ingarbugliati di Wikie Collins con quei personaggi disperati non dissimili da quelli di Carolina Invernizio, altra scrittrice che aveva amato, forse per far dispetto a chi la considerava men che mediocre. I libri che lo avevano aiutato nel suo lavoro e che, volta a volta, aveva dovuto studiare e digerire pagina dopo pagina. Le memorie dei viaggi che gli avevano fatto conoscere più di mezzo mondo, quasi sempre acquistati perché il ricordo della bellezza non andasse perduto ma perdurasse anche dopo l’abbandono di quei luoghi.
Molti libri li aveva acquistati, anno dopo anno, in un piccolo paese sperduto nella campagna francese che, prima di scomparire per il totale abbandono degli abitanti, aveva deciso di trasformarsi. E le sue stalle, i suoi fienili, le sue modeste abitazioni erano divenuti altrettanti ricoveri di libri usati, offerti al volonteroso visitatore per pochi franchi, poi divenuti pochissimi euro. Il paese si chiamava Fontenay-la-Joute.
Sì, tutti i suoi libri erano lì, in quegli scatoloni da trasloco. Avrebbe dovuto spolverarli e catalogarli di nuovo prima di sistemarli negli scaffali. Sì, ma dove? Li avrebbe mai ritrovati i suoi scaffali odorosi di legno che coprivano interamente le pareti del suo studio? Sino a quando? Sino a ieri, a una settimana fa, o in un altro secolo?
Si affacciò un’ultima volta alla finestrella che gli offriva l’insolito panorama degli Stati Uniti d’America. O di una loro copia fedele. Nel cielo avevano ripreso a volare quei macabri uccelloni preistorici che pensava esistessero ormai solo in qualche film di Spielberg oppure, ma ridotti a scheletri fossili, in qualche museo di storia naturale, come quello bellissimo che aveva visitato a Londra con sua moglie e suo figlio. E suo figlio aveva voluto che, al reparto souvenir, comprasse un secchiellino di latta rossa con su scritto il logo del Museo: ci potrai mettere le tue penne, e le matite…

Nell’angolo più segreto del magazzino, seminascosta dietro gli scatoloni da imballo, trovò la bicicletta, la vecchia bici di quando era ragazzo e suo padre gliel’aveva regalata acquistandola a prezzo stracciato da un parente facoltoso che se n‘era fatta una nuova. Quella bici aveva sostituito la biciclettina rossa, vinta a un concorso di figurine Buitoni, che gli era servita sino a quando le sue gambe erano diventate troppo lunghe, Così era passato a questa nuova. Nuova si fa per dire, specie ora, intaccata qua e là dalla ruggine del tempo, dell’umidità e dell’abbandono. La divincolò a fatica dall’incombente architettura di scatoloni e riuscì a spingerla sino all’uscita. Provò ad inforcarla, senza nemmeno curarsi di richiudere la serranda, tanto quegli amati libri non li avrebbe concupiti né tantomeno rubati nessuno, nell’epoca digitale che aveva giurato odio alla carta, specie stampata. Li avrebbe ritrovati tutti là, neppure tirati fuori dagli scatoloni. E poi, vista la stranezza di quel caotico trasloco siderale, quando mai sarebbe riuscito a ritrovare lo stesso magazzino!?
Si accorse di essere ancora in grado di pedalare, forse più incerto sul manubrio, più debole sulle gambe. Ma le ruote giravano e lo portavano lontano. E si ritrovò in una stradicciola di campagna, irta di pietre e sassi che la rendevano impervia, analoga a quella sorta di viale un po’ sbilenco che dal paese portava alla sua casa in campagna. E dal viale deviò verso il bosco. Perché quello era il suo bosco, ne era completamente sicuro! Il piccolo labirinto verde fatto di querce, di lecci, di ornielli e di ambiti segreti che celavano piccolissime oasi di prato arruffato, selvaggio, dove spuntavano spontanei, di stagione in stagione, i ciclamini, le violette, i misteriosi gigli rossi dai pistilli velenosi e quelle bacche che si gonfiavano a primavera sino a divenire dei piccoli palloncini e tu  potevi divertirti a schiacciarli per farli esplodere, provocando un piccolo scoppio, come quello che avresti ottenuto, da adulto ma con ancora la voglia di giocare, facendo esplodere le boule degli imballaggi di plastica. Un bosco segreto e incantato dove ogni anno, a ottobre, sostavano di passaggio i colombacci. E suo padre con gli amici cacciatori stavano all’erta per spararli. E lui li ritrovava belli arrostiti sul desco casalingo, affogati nel guazzetto aromatizzato col finocchio selvatico, e c’era da fare attenzione perché qualche pallino da caccia non ti finisse fra i denti.
Il suo bosco, trasferito anch’esso tout court nel nuovo pianeta? Come avevano fatto? E se fosse stata soltanto un’illusione di bosco, un’oasi olografica creata in quel deserto americano che, stando alle scoperte precedenti, sembrava aver preso il posto dei familiari orizzonti della sua patria. Con l’eccezione di quella  rara sortita a Marsiglia e dintorni.
Ma se quel bosco era reale, allora doveva essere in grado di ritrovare anche la sua casa, la sua famiglia, sua moglie, i figli. Come fare? Affidarsi al caso, come era accaduto sin ora? Sperare nel ritorno di Peter Fonda, l’eroe triste dei suoi anni giovanili, che lo caricasse sul suo chopper e lo portasse via, sino alla soglia di casa sua? Ma sarebbe mai tornato Peter? O anche la sua sortita era stata un casuale incontro bizzarro, frutto di quel disordinato rapsodico allucinante trasloco?

E fu così che…
E fu così che incontrò il suo doppio. Gli si presentò davanti, appena girato l’angolo, e non fece fatica a riconoscerlo. Poteva riflettersi in lui come in uno specchio. Finalmente aveva qualcuno con cui scambiarsi i dubbi, le ansie, a cui porre le domande senza risposta, senza temere che potesse tergiversare, addurre scuse. Inventarsi frottole per placare la propria e l’altrui coscienza. Era una situazione che, in passato,  gli era servita per scrivere il suo primo racconto, pubblicato in elegante volumetto di poche pagine con la copertina bianca con su la foto di un vecchio palazzo di paese. Il Tizio che incontra se stesso, o meglio che può vivere due vite diverse, alternative, e scegliere l’una o l’altra secondo il bisogno e la necessità. Nella prima si era sacrificato e aveva cercato la morte ma nella seconda si era avviato verso un prevedibile happy end, al fianco della persona che aveva scelto come compagna di vita, o dalla quale era stato scelto.
Ma nel suo racconto l’incontro fra i due se stesso era avvenuto sempre a rispettosa distanza. Solo una certa volta, casualmente o inavvertitamente, a dispetto del destino che li voleva divisi, al protagonista era capitato d’incontrare il suo simile e interferire nella sua vita e nella sua sorte. Adesso no, ce l’aveva davanti:
-         Che debbo fare?
-         E che ne so? Se lo sapessi sarei un altro e non te.
Lapalissano, non faceva una grinza.
-         E allora perchè sei venuto?
-         A guarirti dalle illusioni. Sai benissimo, che non la ritroverai più la tua casa. Che fra un mese, forse due, forse un anno, tua moglie ti dimenticherà, o almeno il ricordo di te sarà meno lancinante, si trasformerà in qualcosa di dolce e di remoto.
-         E io?
-         E tu continuerai a vagare in questo mondo diverso, a volte amico, a volte ostile. A incontrare i tuoi ricordi, i luoghi del tuo passato, a dispiegare il tuo vissuto.
-         Ma non tornerò a casa?
L’altro io tacque. Forse non lo sapeva neanche lui. Un altro io inquieto senza certezze e senza prospettive. Altrimenti che doppio sarebbe stato?
-         Cosa mi conviene fare?
-         Continua a cercare, muoviti, non ti arrendere. E non guardare il cielo. Vi vedreste soltanto quegli strani esseri alati.
-         Gli pterodattili?
-         Li chiami così tu? Noi defunti li chiamiamo angeli. 
Lo lasciò andare. O meglio il suo doppio scomparve, come scompare l’immagine da uno specchio che cade a terra e si riduce in frantumi. E finalmente capì. E si rimise in cammino.
 fine