In
occasione del suo ottantesimo compleanno Leandro Castellani riassume, in questa
esclusiva intervista, il senso e il valore del suo contributo personale al
linguaggio televisivo
Quando
negli anni Sessanta incontrai la televisione ero molto giovane ma la tv era più
giovane di me, proprio una bambina! Per strada feci molte esperienze, imparai
molte cose, ma altre a mia volta ne insegnai a quella bambina ancora ingenua,
aperta alla vita e desiderosa di imparare.
Quale è stato il tuo contributo
personale all’evoluzione del linguaggio televisivo e delle sue formule?
Cerco
di essere sincero. Alla mia età è inutile buttarsi via. Tanto ci hanno già
pensato e ci pensano gli altri.
Dunque,
ho iniziato con i documentari, o meglio con le inchieste, due generi che usano
in parte gli stessi materiali ma con finalità diverse. Il documentario “documenta”
(nasce dal cinema), l’inchiesta indaga (nasce dal giornalismo), propone,
fornisce pezze d’appoggio alla scoperta di un fatto o per verificare una
ipotesi.
Agli
inizi degli anni Sessanta esistevano solo due modi di far “documentario” alla
tv. Il primo riprendeva la tecnica dello stagionato documentario
cinematografico nostrano (medio e cortometraggi), applicando una grammatica
tassativa o quasi. Si cominciava con un gran totale “in campo lungo” di un paesaggio
o di una città, poi si passava a un campo medio, a un campo ancor più ravvicinato
o ad una panoramica estenuantemente lenta (da destra a sinistra o dal basso in
alto), mentre la “voce fuori campo” declamava un testo pseudo-poetico che andava
per conto suo. L’ultima immagine era quasi sempre un tramonto.
Il
secondo modo di far documentario era quello introdotto dai nuovi telecronisti che
avevano scoperto un modo più vivace di effettuare le riprese (invertibile in
16mm.), spezzando la vecchia grammatica grazie all’introduzione delle interviste
(quasi sempre con testo messo a punto, iterate più volte alla ricerca della
versione più lineare e senza pause, con buona pace della spontaneità o
“verità”). Con la debita eccezione di alcuni “stili” personali: Carlo Alberto
Chiesa aveva vinto il primo Prix Italia della Sezione Documentario con una
“finta” diretta della mattanza di tonni in Sicilia, in realtà realizzata e
montata a più mani; Ugo Gregoretti aveva bissato il Premio nel 1960 con un
divertente racconto fra poesia e umorismo sulla “Sicilia del Gattopardo”.
I
miei non erano documentari e neppure cronache telegiornalistiche. Intanto innovavo
la vecchia grammatica stantia, disprezzando i “campi lunghi” a favore
del primo piano e del dettaglio. Poi introducevo una sorta di teaser
(che io chiamavo “pre-titolo”) cioè una breve aggressiva premessa di un minuto,
poco meno o poco più, per catturare l’attenzione dello spettatore sul tema affrontato
nel programma. Sino ad allora non ci aveva pensato nessuno.
Come sei arrivato a queste innovazioni di linguaggio?
Ho
scoperto il mio modo di fare inchieste quasi per caso, anzi potrei dire “su
commissione”, quando ricevetti l’incarico di organizzare in un racconto una serie
di interviste ai maggiori scienziati nucleari che, in base a un mio soggetto
sulla “Storia della bomba atomica”, erano state realizzate da altri. Mi resi
conto che era troppo elementare – e noioso per me e per i fruitori – limitarmi
a giustapporre interviste e materiale d’archivio a mo’ di centone, seguendo la
falsariga cronologica e facendoci sopra una chiacchierata “ben scritta”. Non
era questa la strada giusta. Il materiale d’archivio doveva servire innanzitutto
a motivare, incalzare, “inquisire” i testimoni intervistati. Non dovevo
limitarmi ad arricchire con alcune immagini le risposte troppo lunghe o
pleonastiche. Le immagini non dovevano servire ad “alleggerire” le risposte dei
testimoni intervistati – rischiando addirittura di distrarre lo spettatore - ma
a motivare le domande rendendole esaustive e ... aggressive. E le domande
dovevano essere utilizzate anche per presentare il personaggio, il suo
contributo alla storia, le sue responsabilità, ma tutto questo solo grazie alle
immagini, senza nessun indisponente “intervistatore”. Era la voce narrante ad
assumersene il compito.
Teniamo
presente un altro fatto: allora non c’era la possibilità di adire a molti
archivi giornalistici e cinematografici per procurarsi materiale “fresco” e
quindi il materiale disponibile, più o meno consunto e già visto (LUCE, INCOM,
ecc.) poteva e doveva essere “rinnovato” usandolo come cifra, come icona
evocatrice, in una netta rispondenza fra immagine e commento parlato, con un
montaggio serrato che seguisse più le tecniche degli “audio visual aids” che
quelle del vecchio documentario di derivazione cinematografica. Non era
importante cercare ogni volta immagini nuove per documentare eventi,
situazioni, una battaglia, un momento della ricerca scientifica, un incontro
politico, un fatto di costume o altro ma anzi era essenziale iterare le
stesse immagini – in parte già viste e conosciute - assumendole come simbolo, come promemoria, come
riproposta di un volto, insomma come una sorta di sigla di un fatto o di un
personaggio, spesso isolandole dal loro contesto originale, dallo spezzone da
cinegiornale.
Si
trattava di costruire una sorta di "sceneggiatura a posteriori", per
riuscire a comporre, basandomi su documenti filmati e materiali iconografici nonchè
sulle interviste girate, non tanto un resoconto piattamente oggettivo sulla
“costruzione” dell’atomica quanto un'indagine che chiamasse in causa gli
stessi protagonisti: una sorta di "giallo" in 5/6 puntate. Fu un
lavoro molto complesso, svolto prevalentemente alla moviola, da cui uscì un
tipo di costruzione nuova, che non era nè un'inchiesta giornalistica nè un mero
resoconto storico. Accostando fra loro, come in un puzzle, le diverse
"pezze d'appoggio" costituite dalle testimonianze-intervista invitavo
il telespettatore a mettersi anche lui alla ricerca dei fatti e dei dibattiti che
avevano determinato il lancio dell'atomica su Hiroshima. L'inchiesta
diventava anche e soprattutto riflessione morale.
E per il commento parlato?
L’operazione
andava di pari passo con quella del commento parlato, reso strutturalmente più
povero, frasi brevi, nomi propri ripetuti al posto dei pronomi, ritmo e
scansioni agevoli per la lettura dello speaker, senza elucubrati tentativi di
variazioni “giornalistiche” né tanto meno tentazioni letterarie. Ma icastico,
martellante, incisivo. Anche qui senza paura di usare gli stessi termini,
di iterare ogni volta i nomi, inseguendo soprattutto la chiarezza.
Un’inchiesta
su fatti e personaggi della storia non doveva essere un programma “di nicchia”
ma, al contrario, fruibile anche da un pubblico non particolarmente
acculturato.
Fu
un esperimento nuovo a cui corrispose un esito estremamente positivo, coronato
dalla vittoria al Prix Italia di quell’anno (“Storia della Bomba atomica, 1965).
Avrei
adottato sostanzialmente la stessa
formula e lo stesso linguaggio anche nelle mie inchieste degli anni
Sessanta-Settanta: “Il caso Rajk”, “L’assassinio di Trotsky”, “Operazione Alsos”,
“Jean Jaurès apostolo del pacifismo”, “Marsiglia 1934” ecc. (i testi raccolti
nel volume “Giallo storia”, anche se rivisti e adattati per la pubblicazione,
possono suggerirne un’idea).
Altra
innovazione: il ripudio – per quanto riguarda la colonna sonora - di un
commento di tipo… “pastorale”, vagamente sinfonico, insomma di stampo classico,
cosiddetto “d’epoca” – adottato di solito in programmi del genere ed ereditato
dalla tradizione documentaristica in favore di un commento musicale decisamente
moderno: anche stavolta la ricerca di coloriture musicali non avulse dal
connubio parola-immagine. Decisi che il
commento musicale non doveva essere necessariamente coevo alle immagini
usate ma rispondere alle sottolineature emotive volute dall’autore.
Dopo il Prix Italia del 1965 c’è stato
un “secondo passo”?
Eccolo
il secondo passo: con alcuni “scarti” delle interviste raccolte per la “Storia
della bomba atomica”, arricchiti da materiali d’archivio e da nuovi documenti,
compongo “L’enigma Oppenheimer”, a tutt’oggi l’inchiesta più premiata della
televisione italiana. (“Leone d’oro” al Festival di Venezia 1964 - e fu la prima volta che una produzione RAI
vinse il Gran Premio per un documentario - , “Premio Guglielmo Marconi”, “Gran
Premio della critica internazionale” al
Festival della TV di Montecarlo,
ecc.)
Julius
Robert Oppenheimer, “Mister Atomo”: nutrivo grande curiosità per questo
personaggio enigmatico, che aveva diretto il
programma atomico americano e caldeggiato il lancio della bomba su
Hiroshima. Accusato di spionaggio e sottoposto a procedimento inquisitorio, nel
clima maccartista della “caccia alle streghe”, si era successivamente
dichiarato contrario alla costruzione della bomba all’idrogeno, convertendosi,
in certo senso, al pacifismo.
Decisi
di esplorare il personaggio utilizzando pochi elementi: le testimonianze dirette
e i resoconti stenografici, da poco pubblicati, dell'inchiesta che lo aveva
visto principale accusato. Inoltre realizzai due nuove interviste: la prima a
Boris Pash, capo del controspionaggio a Los Alamos e suo principale accusatore;
la seconda ad Haakon Chevalier, che rintracciai a Parigi, l'uomo che Oppie
aveva ingiustamente accusato di spionaggio per stornare da sé i sospetti e “salvarsi
la pelle”.
Ma
nel corso del lavoro avrei voluto citare testualmente alcune pagine del
resoconto stenografico dell'inchiesta maccartista del 1954. Come fare? Possiedo
soltanto un metro di pellicola d’archivio: il "primo piano" di
Oppenheimer davanti alla Commissione d’inchiesta. Ne estraggo una serie di
fotografie, che poi "giro" in truka e “monto” seguendo il ritmo emotivo
e logico delle battute, fatte recitare da due attori. Insomma una sorta di
"animazione per immagini fotografiche". L'impatto sullo
spettatore di questo espediente narrativo, abbastanza elementare, va oltre il
prevedibile. Forse ho inventato, senza saperlo, un modo nuovo per drammatizzare
un documento: ne prenderò coscienza più tardi e farò il passo ulteriore ideando
“Teatro Inchiesta”.
Dunque
“L'enigma Oppenheimer” sviluppa ulteriormente le soluzioni adottate per la “Storia
della bomba atomica”. Scompare la linea di demarcazione fra racconto e
testimonianza diretta. Il racconto della vita dello scienziato coincide con
il tentativo di recuperarne la biografia per approssimazioni successive,
mediante documenti e testimonianze che, a loro volta, costituiscono punti
d'appoggio per proporre nuove ipotesi, lumeggiare aspetti ignorati, aprire
nuovi interrogativi. In breve, fare della "ricostruzione" di un
personaggio più un "problema" che un "dato di fatto".
Poi ci
fu la tua invenzione di un nuovo “format”, “Teatro-Inchiesta”.
Nel
1967 creo e metto a punto un nuovo “format”, ma a quel tempo la parola “format”
non esisteva e nemmeno i copyright per certificare il diritto d’autore. Quando
quel primo ciclo ebbe successo ci fu la corsa per assicurarsene la paternità:
dal funzionario tv che l’aveva “adottata” al Direttore di Rete: tutti padri e creatori!
Teatro-Inchiesta
(1967): la battezzai così. Una formula per raccontare alcuni momenti della
cronaca passata e della storia recente basandomi sui documenti testuali.
L'elemento "teatro" - inteso come ricostruzione con attori - introdotto per drammatizzare e
raccontare tali documenti, ma non per ridurli a pretesto per un generico "sceneggiato":
il programma doveva restare fondamentalmente un'inchiesta, costruita sulla dialettica
serrata fra indagine televisiva e ricostruzione.
Qualche
anno più tardi mi accorsi di aver inventato il docu-drama o docu-fiction che
dir si voglia. Prima, dopo oppure contemporaneamente ai francesi e agli
americani? Vallo a sapere!
La
mia formula, oltre tutto, avrebbe aperto nuovi spazi di drammaturgia televisiva
scavalcando le regole di compartimenti-stagno, rigidamente invalicabili, dato
che vigevano ancora in RAI severe e tassative divisioni fra i vari Servizi
(documentari, “prosa”, rivista e così via), altrettante pastoie per chi volesse
fare, non già prosa, cinema, documentario, ma quel pastiche di generi che si
chiama appunto “televisione”. Teatro-inchiesta rompeva questi opinabili
equilibri. Era un’idea semplice: il documento testuale può fornire spunto
per un’azione drammatica basata su fatti storicamente verificati, l’azione
drammatica può costituire una predella, una pezza d’appoggio per proseguire
l’inchiesta con altri strumenti: l’intervista, la ripresa documentaristica,
l’iconografia.
Naturalmente
“Teatro-inchiesta” era una formula duttile che si avvaleva di volta in volta
della tecnica elettronica (prevalentemente) o di quella cinematografica e
utilizzava differenti sceneggiatori e registi, ognuno dei quali finiva per interpretarla
in modo personale. In alcuni casi si riduceva a uno "sceneggiato
storico" con inserti documentaristici,
in altri casi c'era un dialogo autentico e serrato fra l’elemento teatro
e l’elemento inchiesta, come ne “L’affare Slansky” scritto e diretto da me. Un
vasto ventaglio di realizzazioni, dunque. In cicli successivi e con varie
collocazioni la formula sopravvisse sino al 1973.
Quanto ci hai detto conferma la
definizione di Carlo Scaringi sul “Radiocarriere tv”: Leandro Castellani“è in
certo senso il padre della storia in televisione.” Ritieni di aver portato un tuo contributo
anche allo “sceneggiato” tout court ?
Penso
proprio di sì. Forse un modo nuovo di concepire e realizzare uno
“sceneggiato storico”. Gli unici precedenti per quanto riguarda questo tipo
di sceneggiati erano quelli legati a visioni “tradizionalmente” patriottiche
come “Ottocento” di Anton Giulio Majano tratto da Salvator Gotta, o i cicli de
“I grandi camaleonti” sulla Rivoluzione francese. Con le “Cinque giornate di
Milano” proposi una lettura del tutto inedita del nostro episodio risorgimentale,
al di fuori della retorica patriottarda: la visione federalista ed europeista
di Cattaneo, il gattopardismo conservatore dei filosabaudi (Casati & C.),
l’estremismo rivoluzionario dei guerriglieri urbani “ante litteram” (Bernuschi).
Guerriglia urbana contro esercito austro-ungarico. Una visione del tutto inedita ma trascritta nei moduli del romanzo popolare,
quello che occupava il prime time esclusivo della domenica, con il dovuto spazio
riservato all’immancabile “storia d’amore”. C’è una storia d’amore anche nelle
mie “Giornate”, ma strettamente collegata alla vicenda politica e basata su inediti
quanto ineccepibili documenti storici.
Tutto
questo per quanto riguarda il “contenuto”. Inoltre mi permisi un’incursione sul
terreno del “teatro-inchiesta” proponendo, nella quinta ed ultima puntata, la
rievocazione dell’episodio di Porta Tosa non già in termini di rappresentazione
“oggettiva” ma attraverso le pagine dell’archivio di Cattaneo, lette dagli attori
“in borghese” che successivamente si calavano nei personaggi della ricostruzione-finzione (un
espediente “brechtiano” che userò anche nel “Tommaso d’Aquino”, 1975). Uso totale
ed esclusivo della cinepresa 16mm per le scene di guerriglia e di azione. Il
materiale ripreso con tecnica elettronica (gli interni) trascritto anch’esso
sul pellicola: il tutto me lo montai da solo nella mia moviola di Roma. Una tecnica
che adotterò anche per lo sceneggiato “Orfeo in paradiso”, dal romanzo di Luigi
Santucci. Anche dal punto di vista formale questo lungo film televisivo prende
il largo dai tradizionali confini dello sceneggiato, pur avendo l’ambizione di
catturare lo stesso vasto pubblico del prime time.
I
miei numerosi sceneggiati e film-tv, legati sia personaggi storici che a
momento della storia (remota o recente), corrono dunque su questo binario, agli
antipodi della cosiddetta biopic basata sulle formule standard della sceneggiatura
“all’americana” (i tre atti, la scansione dei plot e così via) che
informerà le “biografie storiche” degli anni Duemila. La mia proposta di
lettura continua ad essere, per qualche versi, quella dell’inchiesta: mi muovo
alla ricerca dei motivi dialettici, l’interesse scaturisce dai fatti, è nei personaggi e non nella
supposta drammatizzazione di avvenimenti e fatti che drammatici già lo sono di
per sè.
Così
anche nel mio racconto dell’epopea dell’Ossola (“Quaranta giorni di libertà”)
rifiuterò il consueto bandierone resistenziale per descrivere in termini volutamente
didascalici una Resistenza composita, a più facce, mirando non tanto alla
generazione dei “nostalgici”, per un’operazione alla “come eravano”, ma alla
generazione successiva, la mia, che di fatto non ha conosciuto e vissuto la
temperie resistenziale
In
definitiva credo che, anche nel campo dello sceneggiato, il mio apporto sia
stato abbastanza rivoluzionario, nelle tecniche e nei contenuti.
E per quanto riguarda i lavori di tua
produzione?
Si
tratta soprattutto di film per la tv, in una o più puntate. Al di là dei
singoli temi e dei singoli risultati mi sembra particolarmente importante sottolineare
la novità della formula produttiva, il cui merito debbo condividere con
mia moglie, Maria Grazia Giovanelli: un sistema produttivo agile, funzionale,
svincolato dalle gerarchie e liturgie del cinema e della televisione, che
anticipava la pratica dei film-makers, cioè dei realizzatori-produttori, anche
se allora la tecnologia non facilitava certo il compito. Esperienza che le
televisioni si sarebbero affrettate a cancellare, consapevoli che il
contenimento e quindi l’abbattimento dei costi potesse mettere in crisi nuove
operazioni finanziarie e speculative.
Negli
anni Settanta-Ottanta si facevano ancora film televisivi seguendo metodi
cinematografici vecchio stampo, con la pleonastica suddivisione e
moltiplicazione dei ruoli, legati alle necessità di una tecnologia già desueta,
con relativa levitazione dei tempi e dei costi. Adottammo un sistema diverso:
troupe ridotta ma qualificata e… agguerrita, riprese realizzate quanto più
possibile in location esterne, di solito concentrate in un territorio limitato,
possibilmente fuori Roma. In questo precedemmo di un paio di decenni l’istituzione
delle varie Film Commission. Un metodo di lavoro, frutto della mia esperienza
televisiva, che purtroppo non fece scuola. La pilotata levitazione dei prezzi
portò alla eliminazione delle produzioni “a basso costo”, come la mia, a favore
delle fauci dei cinematografari tardivamente convertiti al nuovo medium.
Debbo
constatare purtroppo che, ,Mentre il cinema si aggiorna nei modi e nelle
tecnologie, i metodi odierni della produzione televisiva sono ancora quelli
faraonici di un cinema ormai scomparso…
Altre innovazioni che hai apportato?
Direi
l’operazione “Fausto di Marlowe”, un modo nuovo di concepire e realizzare un
testo teatrale per la tv. Sino a quel momento la cosiddetta “prosa
televisiva” correva lungo due direttrici: la ripresa di uno spettacolo di prosa
“da un teatro” usando due o tre
telecamere: metodo valido per documentare gli exploit di grandi attori e
registi ma legnoso e scarsamente fruibile come proposta televisiva. Un po’ come
“fare la foto animata” di una realizzazione teatrale. Seconda direttrice:
l’adattamento “in studio” di un testo teatrale, adottando un tipo di
recitazione un po’ più destrutturata e l’articolazione in due o più ambienti, insomma
una spruzzata di tv sul testo teatrale.
Per
il Faust adottai un sistema del tutto diverso: proposta integrale del testo
(nella traduzione moderna di Rodolfo Wilcock), ambientazione in location dal
vero ma sostanzialmente in un contesto unitario: la cripta e la chiesa di
San Vincenzo al Furlo, i paesaggi e gli ambienti di Piobbico e Urbania. Il
tutto filmato in presa diretta, avendo cura di non frantumare – in fase di
ripresa - ogni singola scena in una serie di brevi inquadrature, favorendo così
la concentrazione e la resa degli attori. Inoltre avevo cercato di tradurre
l’immaginario elisabettiano in un immaginario italiano: streghe al posto dei
maghi, folletti e sparizioni a vista, mamuttomes al posto dei diavoli, insomma
un grottesco fra farsa e tragedia. Indici di ascolto e gradimento alle stelle.
Era l’indicazione di un nuovo stile (o di un nuovo format?) per far teatro
in tv. Ma non ebbe seguito.
Ti si imputa il “peccato” di esserti occupato
di troppi generi diversi.
Credo
di aver saggiato e sperimentato, sempre con intenti innovativi, le più svariate
formule di racconto televisivo, dalla rubrica, al programma didascalico a
quello musicale, all’intervista di strada, al programma seriale, allo
sceneggiato, ecc. Perché a sedurmi è la possibilità di saggiare e mettere in
pratica sempre nuovi modi ed esperimenti di linguaggio.
In
definitiva potrei qualificarmi un
antesignano della continua commistione o ibridazione fra generi diversi - sceneggiati e telefilm a soggetto, documentari, interviste, dibattiti ecc. - tutte
formule legate a un’era “pre-televisiva” ma che, negli anni Sessanta, continuavano a resistere. La mia predilezione
per la tv come nuovo linguaggio perderà progressivamente terreno negli anni
della neo-tv e della tv commerciale dove, anche per ottemperare a esigenze
commerciali, assisterò a uno spento rifiorire dei “generi standard” quali la
fiction, il talk show, l’inchiesta con interviste, i commenti dei brani filmati
da studio, ecc. mentre l’innovazione passerà ai cosiddetti “format”, formule “a
scatola chiusa” coperte da copyright, fondamentalmente iterativi e monotoni.
Mio
merito – o forse difetto – non aver mai voluto ricoprire o rincorso cercato o
rincorso la figura-stampella del conduttore, del mediatore “in campo”, spesso
rivelatasi – buon per loro – un mezzo per promuovere al ruolo di indispensabili
comunicatori dei modesti quanto grigi funzionari-giornalisti. A me avevano
insegnato a suo tempo che l’autore deve mettersi sempre tra parentesi, ossia
“fuori campo”, evitando sciocche esibizioni personali.
Non
ho mai curato la promozione di me stesso anche se – modestia a parte – forse ne
avrei avuto tutti i numeri. Ho cercato invece che le cose, i fatti, il
linguaggio delle immagini e delle parole parlasse da solo e fosse in grado di
catturare lo spettatore in virtù della sua chiarezza, incisività, aggressività
forse. Linguaggio delle parole e delle immagini insomma e non passerella
dell’autore.
E poi?
E
poi la storia è lunga, ma l’essenziale credo di averlo già detto. E poi ci sono
le mie incursioni nel cinema, nello sceneggiato radiofonico, nello spettacolo
musicale. E poi la partecipazione al serial, i miei contributi teorici alla
massmediologia, la mia opera di docente, i miei conati di scrittura… Nonché
tutto quello che ho in animo di fare e che farò…
Certo
non sarò ricordato come un pioniere della tv, all’altezza di Renzo Arbore, di
Pippo Baudo e delle sorelle Kessler, ma
il mio deciso, fattivo e…indispensabile contributo al linguaggio televisivo
credo di averlo dato. Servano questi sommari appunti a qualche volonteroso
futuro saggista e, perché no, a qualche operatore della tv desideroso di sapere
da dove spuntino certe acquisizioni poi divenute terreno comune.
Se
e quando si scriverà una “vera” storia della televisione – cioè mai – forse il
mio apporto sarà seriamente rivisto e valutato. Per il momento dobbiamo
accontentarci di un mio libricino, edito da Studium nel 1995 e poi di nuovo nel
2002, “La Tv dall’anno zero”.
(intervista
raccolta da Floriano Pivani)
© Prod.TVC 2015