(Ripubblico qui il saggio, scritto a ventidue anni di età, che mi fruttò la chiamata alla redazione dela rivista universitaria "Rcerca")
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Attore
è chi vive ogni sera il personaggio, chi presta un tessuto di forze, di
sensazioni, di movenze, di voci alla sua parte, all’immagine che, suscitata da
un testo, vivrà in lui solo per una sera. Perchè ogni sera ci sarà un nuovo
personaggio, anche se il testo rappresentato non muterà, un nuovo personaggio
che un tempo nuovo farà scaturire dalla vita dell'attore.
L'attore
è vita, creazione continua, la forma pura; e il dramma dell’attore è quello di dar
vita al personaggio così come questi la invoca, di non snaturarlo e tradirlo
imponendogli parte di sè, costringendolo ad essere azione o parola o gesto e
non vita che è tutto questo insieme e molto di più.
Vien
fatto di richiamare queste idee a proposito della giornata teatrale di Eduardo
De Filippo, un attore tutto inteso ad « essere » più che a « parere », tutto
volto a questo rito di identificazione col personaggio. Il paragone più
immediato, una eco più che un confronto critico, è quello con Molière: il
fascino prepotente di chi creava ogni sera un « misantropo » o un «malato immaginario
» per una sera soltanto. Ormai resta a noi solo la traccia del viaggio
spirituale dell'attore Molière, i suoi testi - e sono cose da far gridare al
miracolo il critico letterario - ma la creazione dell’attore Molière si è diffusa
nel tempo.
La
recentissima pubblicazione presso Einaudi delle ultime due commedie di Eduardo
ci ripropone, così come ad ogni sua nuova commedia, l’esame globale della
complessa personalità di questo attore-autore. Siamo al problema antico e
sempre nuovo che nasce con la Commedia dell'Arte, o forse molto prima, e che risorge
con diversi caratteri ogni qualvolta ci si trovi in presenza di un autore che
sia anche attore, o meglio di un attore che sia anche autore. In tali opere il
primo momento appartiene sempre al personaggio concepito e vissuto dall’attore,
risolto e concretato
in
modi di rappresentazione: l'intuizione teatrale è sempre la fondamentale. E'
questa la linea di svolgimento di tutti gli scrittori di teatro che furono
anche « uomini di teatro », in senso lato « attori », uomini cioè portati a intuire
la vita del personaggio nella creazione del gioco teatrale, il gioco più totale
di identificazione creato dall'uomo. Da Shakespeare, a Molière, a Goldoni. Per tali
spiriti il testo non può identificarsi con la totalità della creazione ma ne
rappresenta la traccia in parole: l’unità è solo quella del palcoscenico. Ecco perché
si rivela insufficiente e inadeguata la semplice lettura anche di un
capolavoro: « King Lear » come « Le misanthrope ». Da questo punto di vista
anzi potremmo dividere le opere di teatro in due grandi gruppi: le creazioni
degli autori-attori, che non tollerano la
lettura
ma esigono la rappresentazione pena la perdita di elementi vitali, e le
creazioni degli autori-letterati, che, anche se sopportano la rappresentazione,
non posano sostanzialmente su questa (Manzoni tragediografo, Alfieri). Divisione
quanto mai elastica che non implica naturalmente giudizio di valore.
Come
tutto il vero teatro anche quello di Eduardo si precisa e concretizza
attraverso un linguaggio parlato ed un linguaggio scenico: due facce
inseparabili di un’unica sintesi.
I
suoi copioni ci offrono la trama parlata, l'ordito tracciato perchè diventi vita:
ecco la funzione di quelle diffusissime didascalie che cercano di disegnare lo schema
dei giochi scenici, accenti intraducibili e non tramandabili che per via di
temperamento e
mestiere:
« Gennaro – (la guarda teneramente.
Avverte negli occhi della fanciulla [la figlia] il desiderio d’un bacio di
perdono, così come per Amedeo. Non esita. L’avvince a sè e le sfiora la fronte.
Maria Rosaria si sente come liberata e, commossa, esce per la prima a sinistra.
Gennaro fa l'atto di bere il suo caffè, ma l’atteggiamento di Amalia stanco ed
avvilito gli ferma il gesto a metà. Si avvicina alla donna e con trasporto di
solidarietà, affettuoso, sincero, le · dice}: Teh... Pigliate nu surzo ’e cafè…
(Le offre la tazzina. Amalia accetta volentieri e guarda il marito con occhi
interrogativi nei quali si legge una domanda angosciosa: « Come ci risaneremo?
Come potremo ritornare quelli di una volta? Quando? ». Gennaro intuisce e
risponde con il suo tono di pronta saggezza). S’ha da aspettà, Amà’. Ha da passa ’a nuttata. (E dicendo
questa ultima battuta, riprende posto accanto al tavolo come in attesa, ma
fiduciosa). (Battuta finale di
“Napoli milionaria”).
Ma
le creazioni di Eduardo non vivono solo sul filo della rappresentazione,
porgono una tematica ricca e filtrata da una sensibilità diffusa e attenta. Il
tema dì tutta la letteratura napoletana, comica o no, - il contrasto fra la saggezza e il tempo - si
arricchisce di nuovi sviluppi. Pure nella cadenza malinconica del racconto, il
pessimismo non sarà totale: la lezione del siciliano Pirandello si scontrerà
con quella meridionale del «Platone in Italia »: anche nella vittoria del tempo
la saggezza, l’umanità, l’oro di Napoli, potrà sopravvivere, e sarà in fondo
anche la sua vittoria: “Napoli milionaria”, “Filomena Marturano” “Questi
fantasmi”, “Mia famiglia”, per fare alcuni nomi.
Saggezza
tutta terrena che si celebra nell’opporre il suo senso di riduzione al tempo,
nello scoprire in ogni cosa semplice un motivo di pace, e viene a identificarsi
un poco con la nostalgia del « tempo che fu» al vedere insultate le cose di
tutti i giorni, i piaceri non artefatti, i principi intoccabili, resi sacri
dalla tradizione, di famiglia, lavoro, onestà: nasce il dramma, il contrasto
fra questo bagaglio di cose che la saggezza sente sue e la superficialità di
chi muta faccia, di chi è pronto a rinunciare a Napoli (intesa come patrimonio
di umanità) per abbracciare l’interesse nuovo, la fonte immediata di ricchezza,
il mutare.
Il
contrasto fra la saggezza e gli aspetti del tempo può assomigliare a quello
classico fra Pantalone e le maschere dell'arrivismo (non Pulcinella che è
sempre se stesso e perciò saggio, ma Lelio, Arlecchino, Colombina) e si vela
quindi di moti, spunti e azioni decisamente comiche fino al grottesco.
Assomiglia, d'altro canto, anche al contrasto fra l’io (come fondo immutabile
di umanità) e le immagini (una, nessuna, centomila): e siamo alla dialettica
pirandelliana - non si dimentichi che Eduardo inizia il secondo tempo della sua
opera dialogando una trama di Pirandello, « L'abito nuovo ». - In ciò Eduardo
sperimenta una nuova intuizione del dramma del suo personaggio, chè l’errore
del tempo coinvolge la saggezza stessa e sembra perderla: anche questa è spesso
una occasione per quel suo umorismo triste, per quella comicità velata d'amaro.
La saggezza rischia di perdere tutto, di cadere nella caparbietà per non venire
a compromessi con l’esigenza vera che è talvolta celata nel tempo. Ma è sua la
vittoria finale: essa saprà porsi ancora, più cosciente, più vera, quale centro
della nuova costruzione morale:
« ...voglio parlà. Puo darsi che sono
ancora in tempo. (Come per
reclamare un suo diritto). Voglio parlà.
E voglio dire tutti i luoghi comuni, le frasi più vecchie; non mi vergogno!
Voglio citare i proverbi più antichi: L’arta ’e tata è meza ’mparata. Chi va
per questi mari questi pesci piglia. Chi te ne fa una te ne fa mille. Chi
pratica lo zoppo impara a zoppicare. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.
Meglio l’uovo oggi che la gallina domani. (Si ferma per un attimo scrutando
l’impressione di ognuno, poi chiede bruscamente). E non ridete? Io sto dicendo
le cose più antiche, e non ridete? Come vedete un passo lo abbiamo fatto: voi
mi sentite dire queste cose rancide e non ridete. E io le dico e non mi
vergogno. E' importante… è importante assai. Questo significa che voi avete
tentato di farmi diventare una cosa inutile; ma che non ci siete riusciti; e
che io ho creduto di trovarmi di fronte a gente che vedeva con un occhio più
aggiornato dei mio e non era vero. E' importante... è un miracolo! ».
(«
Mia famiglia », atto Il).
Eduardo
ci offre oggi una dimostrazione di fede nel teatro, nel personaggio come
creazione, come vita, come mediazione di vita al
pubblico, svolgendo i suoi temi con una coerenza che non si preclude ampi sviluppi,
con un senso umano d’indagine che non si
pone stretti confini, costruendosi ogni volta personaggi completi.
2.
Dalla
« farsa » alla « tragedia delle farse »: si potrebbe sintetizzare così la
storia della produzione teatrale di Eduardo. Nel primo tempo della sua opera (fino al
dopoguerra, approssimativamente) è un lento svolgersi dai modi comici e furbeschi
del teatro dialettale napoletano, quel teatro che si rifà direttamente alla Commedia
dell’Arte attraverso le esperienze del « San Carlino » e le farse classiche di
Eduardo Scarpetta, il teatro di Pulcinella per intenderci, con il suo repertorio
di lazzi, di movenze e di fondamentale saggezza Un tempo da non ignorare nè da
disprezzare se ci frutta alcune delle creazioni più vivaci e ricche di umorismo
della densa tradizione comica napoletana. Non si può spiegare Eduardo senza la
scuola scarpettiana che in lui vuol dire “teatro”, amore dell'effetto comico,
dell'azione vivace e compiuta, senza residui di letterarietà, risolta
interamente sul palcoscenico, del gioco mimico preciso, attento. Ma già, in
questo comun-denominatore del teatro comico dialettale, Eduardo si inserisce
con una novità d'invenzione sorprendente unita a doti d'osservazione non
comuni: « Natale in casa Cupicllo » (1930), vero preludio in tono scherzoso alla
sua grande stagione. In fondo la malinconia è il succo di ogni allegria
protratta a lungo, di ogni allegria che voglia indagarsi: questo schema ci
aiuta a comprendere l’intima genesi del dramma eduardiano. Ad un certo punto il
puro gioco pare peccato, tradimento, e nasce il bisogno di esaminarsi per
distinguere il riso dell’ottimismo da quello del fantoccio, sorge il bisogno di
assicurarsi che il riso non sia solo un'apparenza vuota, il ghigno di una «
maschera nuda ». Ed Eduardo passa per il polo Pirandello: un fenomeno di
demolizione interiore che il teatro contemporaneo potrà superare, non ignorare:
le ricostruzioni contemporanee passeranno tutte attraverso la catarsi
pirandelliana concludendo la sua posizione negativa in uno scetticismo totale o
correggendola in uno slancio verso l'infinito, in una nuova strada verso l’ascesa.
Con
“Napoli milionaria” (‘45) un grumo fitto di umanità sofferente invade il
palcoscenico di Eduardo. Gli schemi di riduzione che servirono a Scarpetta per
trasformare le figure dell'ultimo ottocento in « macchìette » sono sorpassati
in uno slancio poetico e lirico. La tecnica di un mestiere smaliziato, fusa con
un forte senso poetico, agisce ormai come strumento di trasfigurazione
teatrale. La lezione di Pirandello e quella vicina, urgente e drammatica, del
conflitto mondiale e del triste dopoguerra hanno prodotto una crepa profonda:
il teatro di Eduardo non ha più l'innocenza dell’infanzia, non se la sente più
di scherzare con una ventina di marionette umane che il tempo gli offre,
l'innocenza consapevole della maturità, un'innocenza sostanziata di peccati
scontati, di colpe perdonate: ecco la differenza che passa tra Settebellizze,
arrivista e trafficante, e il «guappo », tra Amalia e la « moglie tiranna »,
tra Gennaro e Felice Sciosciammocca, la maschera scarpettiana; non che siano
antitesi vere e proprie, c'è solo un di più di complessa umanità.
Infatti,
a pensarci un poco, ogni personaggio di questa commedia può richiamarci alla
memoria un tipo classico, una maschera della commedia di sempre: Gennaro è
Pulcinella o meglio Sciosciammocca, Maria Rosaria è la Colombina civetta, Peppe
'O
Cricco
il mariolo, e cosi via... Solamente che Eduardo non si è fermato al tipo ma è
sceso all’anima di ognuno, ha voluto sulla sua scena dei personaggi, cioè dei caratteri,
non delle maschere; e
si
sforza di capire, nella ridda degli avvenimenti, le norme dell’agire di ognuno.
Il suo atteggiamento interiore corrisponde quasi sempre a quello del
protagonista: ci dev’essere un perchè, non è possibile che lo sfacelo sia
totale; s’ha da trovare la possibilità per ricostruire.
Rinuccia,
la figlia più piccola di Gennaro, è in fin di vita: l’avvenimento agirà su
tutti provocando la revisione completa, prospettando il senso vero ed eterno
delle cose di contro alla caotica marea del dopoguerra: la saggezza vittoriosa
potrà sperare:
« Cchiù 'a famiglia se sta perdenno e
cchiù 'o pate 'e famiglia ha da piglià, ’a responsebìfità. (Ora il suo pensiero
come verso la piccola inferma): E se
ognuno putesse guarda’ ’a dint’ ‘a chella porta... ogneduno se passaria 'a mano
p’ ’a cuscienza... ».
Il
problema dell'origine pirandelliana di Eduardo sì ripropone con «Questi
fantasmi» (1946), la commedia più ampia forse di Eduardo, disposta su una trama
originalissima e inconsueta, e tutta lavorata in profondo, con un equilibrio
perfetto fra dramma e commedia, fra comico e tragico. La negazione
pirandelliana è, come si diceva, un passaggio d'obbligo per gran parte del
teatro contemporaneo mondiale: ogni ricostruzione partirà dal dissidio interno
dell’uomo fra essere e sembrare. In Italia si potrebbero indicare due soluzioni
principali: quella di Ugo Betti, che muove da Pirandello per giungere alla lucidità
spettrale e al forte anelito
di
salvezza dei suoi drammi, e quella di Eduardo che, attraverso la sua pietà, la
filosofia della saggezza, quella di Napoli, vecchia da sempre, vuol arrivare ad
una nuova consapevolezza dell’uomo. E' ancora il dissidio pirandelliano che può
spiegare i cento simboli di Jean Giraudoux, stilizzazioni di umanità agenti in
un quadro surreale ma vincolato a problemi aperti e a moti attivi (“La folle de
Chaillot”). Dissidio che troviamo all'origine dei personaggi titanici e dei
parossismi vigorosi dell'O'Neill dei miti greci e più di Arthur Miller (« Erano
tutti miei figli » e «Morte di un commesso viaggiatore »). La necessità di
ricostruire, di edificare, di indagare fino alle radici le apparenze, è la linfa di
tanto teatro contemporaneo: così Eduardo può dirsi pirandelliano e moderno,
nuovo e universale.
Ma
la sua problematica non affonda mai nel cerebralismo (per quanti autori
contemporanei si può ripetere la stessa cosa?): indagine è pietà, pietà è
poesia: ecco i termini del suo discorso. Pietà profonda per l’umanità che finisce
sempre col vincere il rancore, la stizza, lo sfogo polemico del primo urto;
pietà e poesia che gli permettono, ad esempio, di raffigurare sulla scena i
piccoli, i vecchi, i minorati, con una delicatezza che rifugge in partenza dalla
tentazione di grossolani effetti cornici: basti pensare ai due personaggi di
Carmela in « Questi fantasmi » e di Pasqualino in « Bene mio e core mio »:
« Io non sono scemo, hai capito. Io a
dieci anni ero già deficiente, e quella mi chiama scemo… Sai come ha detto il
prete a mammà? Ce lo puoi domandare... mammà sta llà. Il prete dicette:
"Signora Virginia, il deficiente è sacro!”. Chiamami scemo un’altra volta,
e poi vedi la Madonna come ti punisce tanto bello».
Si
può concludere che quello di Eduardo è un «pessimismo che il palpito lirico
sfoca e ammorbidisce » (A. Fiocco).
Contenuto
e tematica universali si è detto, ma questo contenuto ha la voce di Napoli. Eccoci introdotti a
parlare un poco del linguaggio. I personaggi di Eduardo non sono dei puri e un
poco astratti cittadini del mondo come quelli di Ugo Betti ma, pur avendo in
comune con tutti gli uomini doti intime di sensibilità e spiritualità, sono
tutti napoletani, ambientati geograficamente e psicologicamente a Napoli; e di
Napoli conservano i tratti, il modo di vivere, le concezioni, la mentalità
concreta, gli interessi: tutta Napoli con i suoi vicoli, le sue miserie, la sua
sconfinata potenza di poesia, la Napoli dei « clichés » liberata dal <
cliché»,
sentita
come un modo d'intendere; e gli errori dei personaggi saranno errori di Napoli,
le loro vittorie le vittorie di Napoli, le loro parole quelle di Napoli. Ecco
come il linguaggio dialettale sia intima necessità, una cosa sola con il
discorso della mente, così come il Padron 'Ntoni verghiano non può non parlare
e pensare siciliano. E lo strumento, il
linguaggio napoletano, della sua indagine nel reale, della sua inchiesta nella
società che gli è vicino, sta a dire come i suoi personaggi non si prestino mai
ad essere interpretati unilateralmente come facce di un tema, come aspetti di
un problema, ma presentino sempre una precisa individuazione psicologica: «
Filumena Marturano» (1946), «Le voci di dentro » (1948).
Dialetto
napoletano con le sue mille gamme: dove il barocchismo di un'espressione lirica
ridondante non può mai venir confuso con un astratto residuo letterario (chi ha
mosso questa osservazione nei confronti di Eduardo è del tutto fuori strada) ma
sta a tradurre un preciso modo di sentire; un dialetto saggissimo che profitta
di tutte le esperienze degli scrittori in vernacolo: dalle scene realistiche
tracciate con un linguaggio diretto, brioso,
efficace, allusivo, agli squarci lirici
e patetici dove è viva la eco dell’essenzialità del Di Giacomo, alla
scorrevolezza parlata delle scene d’azione.
Linguaggio
che si sviluppa in un perfetto equilibrio tra le più peculiari forme dialettali
e le più lineari espressioni in lingua, con leggera prevalenza, nelle ultime
opere, di locuzioni italiane costruite a vivo su schemi napoletani, col
risultato di un effetto di grande freschezza. Basti pensare, come esempio di
questo stile vivace, al lungo monologo di Chiarina (atto I di « Bene mio e core
mio”) di cui citiamo un brano:
“E che me ne sono vista della vita?
Tengo quarantadue anni, sarò andata a teatro sì e no quattro cinque volte. Non
conosco cinematografo, non tengo amicizie. Ero giovanetta, sapete… a
quattordici quindici anni cominciano i primi grilli per la testa. Niente mi diceva la buonanima
di mammà… che possa stare nella schiera degli angeli... ma mi guardava mestamente, come per dire:
”Chiarì, mo’ ti metti ad amoreggiare? E la casa?” Mammà era delicata come una
libellula, con un polmone solo, stava sempre: tienimi che mi tengo… papà
occupato a fare il decoratore… quando tornava voleva trovare tutto pronto. Lui
(indica Lorenzo) giovanotto, camicie toglieva, camicie metteva… E Chiarina
lavava, stirava, cucinava…”
C'è
una forza viva che ci risospinge al “personaggio” di Eduardo, alla vita vera
della sua commedia, impastata di serenità e di giochi radicati sulla
malinconia, al personaggio che, annullando in un attimo la finzione e superando
la barriera luminosa della ribalta, sa filtrarci, attraverso mille cadenze, la
disincantata poesia dell’animo del suo autore.
(RICERCA, 1 settembre 1956)