giovedì 7 marzo 2024

LEANDRO CASTELLANI - CINEMA E ANGOSCIA: LA PROSPETTIVA APOCALITTICA - 1995

 


 

 

CINEMA E ANGOSCIA: LA PROSPETTIVA APOCALITTICA

(1995)

 

 

Cinema e "cultura popolare"

Alcune necessarie premesse. Anzitutto: cosa intendo per cinema popolare. Il termine ne richiama immediatamente un altro, quello di "cultura popolare", intesa come un patrimonio di valori, modi e costumi, credenze e usi, tensioni e miti, incarnato in una serie di espressioni che vanno dalla musica al teatro alla danza alla tradizione orale e così via, che sottendono un'immagine della realtà e della società e che determinano altrettanti modelli di comportamento. Come scrive il card. Mahony, arcivescovo di Los Angeles, ricordando il messaggio rivolto, nel 1987, da Giovanni Paolo II alla gente di spettacolo durante la sua visita a Hollywood [1]:

"Per migliaia di anni la gente, ogni volta che era impaurita, sola, confusa o sentiva il bisogno di radunarsi insieme per dare un senso alla propria vita, ha raccontato storie: storie d'amore e storie di guerra, storie di coraggio e storie di disperazione, storie vere e inventate, storie che ci fanno ridere, altre che ci fanno piangere. Ma l'elemento comune a tutte queste storie è che ognuna di esse cattura una parte di verità su cosa significa essere uomini."[2]

Raccontare storie ha significato da sempre tradurre in immagini, eventi, personaggi, logiche di comportamento, il nostro concetto di esistenza: come concepire la convivenza, lo stare insieme, come neutralizzare le nostre angosce, come affrontare la vita, quali punti di riferimento considerare positivi o negativi. Ogni storia presuppone un certo schema d'interpretazione della vita e della società.

Anche il cinema risponde alla stessa domanda, a questo bisogno di narrare e ascoltare "storie". Non per nulla il cinema si è affermato storicamente come il collante narrativo di una società, quella statunitense, che agli inizi del secolo è una società multietnica, fatta di popoli diversi - chi arriva dall'Italia, chi dall'Irlanda, chi dall'Inghilterra, chi dalla Germania o dalla Spagna - con culture popolari diverse, ma che naturalmente ha bisogno di confrontarsi e di recuperare un background comune: lo troverà grazie a un linguaggio che non è verbale, dunque non ha bisogno di mediazioni linguistiche, cioè nello spettacolo cinematografico dei "nickel odeon". E potrà scoprire questo terreno comune in alcune grandi favole che sono un po' il riassunto delle piccole favole che ognuno si è portato dietro e che ben presto ha perduto totalmente o parzialmente per strada. Ed ecco il mito, l'epopea del West, che esprime e rappresenta così bene quel concetto di competizione sociale con il quale questi nuovi americani , immigrati più o meno recentemente, debbono fare i conti. Ecco, un mondo dove tutto è possibile, dove l'agguato è ad ogni passo, ad opera di "cattivi" di razza diversa o di "cattivi" che dovrebbero essere dei "nostri". I "buoni" siamo noi, e dunque soffriremo, lotteremo, lasceremo delle vittime sul nostro cammino, ma troveremo un nuovo spazio e alla fine vinceremo. Però dobbiamo contare solo sulle nostre forze, perchè se ci affidassimo allo sceriffo o alla legge non avremmo speranze. Il mito del West è la grande favola che unifica le varie culture popolari in una cultura nuova, la cultura americana della "frontiera". In tempi più recenti il mito della "frontiera" rivivrà nel ciclo di Star Trek, il western degli anni Sessanta-Ottanta (sette film e numerosissimi episodi divisi in quattro serie televisive).

 

Cinema popolare e "generi"

Il cinema che risponde a questa domanda di "storie", di "mitologie", di "immaginario", si organizza ben presto in "generi", cioè segue schemi di racconto abbastanza costanti.

E siamo alla seconda "premessa". Il cinema popolare è il cinema dei "generi", formule narrative, spesso desunte a loro volta dalla letteratura popolare e dal teatro popolare, che sono nello stesso tempo schemi di lettura della realtà e schemi che potremmo chiamare "d'organizzazione della fantasia". Talvolta il cinema ne crea dei nuovi. Valga per tutti il genere western, di cui abbiamo detto, che annovera modeste opere di consumo e autentici capolavori.

Come definire un genere? Come uno schema narrativo che costituisce un "sistema di attese per i destinatari" e un "modello" di proposte per gli autori [3]. Facciamo l'esempio del "thriller", o del "giallo" per dirla all'italiana. Lo spettatore sa che prima o poi s'imbatterà in un delitto e dovrà mettersi alla caccia dell'assassino, sospinto da una serie di indizi. Sa di attendersi determinate emozioni, la paura, la tensione, la scoperta del colpevole o la sua eliminazione. A loro volta gli autori sanno di dover garantire questo sistema di attese attraverso la costruzione di una storia e il rispetto di alcune coordinate narrative. Ma la definizione di "genere" ci porterebbe assai lontano. E' evidente che essi rappresentano una chiave e un oggetto di studio essenziale per capire il cinema popolare o gran parte del cinema tout court.

 

Cinema come "memoria"

Un terzo passo. Il cinema è specchio del proprio tempo, si è detto, e l'affermazione è talmente ineccepibile da essere diventata un luogo comune: cinema come "documento" e come memoria [4]. In varie accezioni: a) perché in alcune espressioni cinematografiche il tempo acquista consapevolezza di sé: L'incrociatore Potemkin di S.M.Eisenstein, Citizen Kane di Orson Welles o Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, per citare tre film diversissimi fra loro, sono chiavi di lettura insostituibili per cogliere il travaglio ideologico e spirituale, direi il "senso" del nostro secolo;

b) perché l'"immagine sonora in movimento" cattura modi di essere, atteggiamenti, predilezioni figurative, realtà soggettive e oggettive che altrimenti andrebbero perdute per sempre, irrecuperabili. Noi non sappiamo come camminassero o agitassero le mani Giulio Cesare, Napoleone o più semplicemente il nostro trisavolo... Ma dagli inizi del secolo il cinema registra ogni minuta variazione nei volti, nella postura, nella gestualità, persino nella dizione...

c) perché il cinema riflette stereotipi, schemi di lettura popolare, riferimenti a valori o a pseudovalori vissuti come valori, a mode e gusti, detta modelli di comportamento, costruisce l'immaginario collettivo, ecc. E in quest'ultima accezione che la considerazione dei generi diviene un interessante, anzi un insostituibile osservatorio. Il cinema dunque riflette anche i timori, le paure, le angosce, dà forma agli "incubi catartici" e ai "sogni premonitori".

 

Cinema e angoscia

Non ci dilungheremo sulla definizione del secondo termine della relazione, "angoscia", una delle parole più impegnative della nostra cultura. Accontentiamoci della definizione più epidermica e superficiale: angoscia come stato di inquietudine diffuso, insopprimibile. In questo senso non immediatamente identificabile con la "paura", perché si ha paura di qualcosa di definito, di un pericolo che sappiamo incombente o di un nemico dal quale occorre difendersi. La paura risponde alle leggi della casualità: è un effetto prodotto da una causa.

Al contrario il sentimento d'angoscia sembra non avere una causa definita, non è prodotto da un pericolo immediatamente identificabile. Si prova angoscia per qualcosa d'incombente che ci rende inquieti senza che ne conosciamo esattamente il perché. L'angoscia sfugge alla legge della casualità per rispondere a quella della fatalità. E' il destino, il fato che incombe su di noi e ci rende inquieti.

Nel "Concetto dell'angoscia" (1844), Kierkegaard definisce appunto l'angoscia come il puro sentimento della possibilità, che nasconde sempre l'eventualità dello scacco e della morte, il senso della precarietà della propria condizione. Così come per Heidegger "angoscia" è la situazione affettiva fondamentale dell'uomo di fronte alla morte, l'accettazione dell'ineluttabile.

C'è un film che è impossibile non ricordare anche in questa sede, Il settimo sigillo (1956), di Ingmar Bergman, una grande metafora dell'angoscia, nella sua doppia accezione: l'angoscia esistenziale (quella dello scudiero) e l'angoscia metafisica (quella del cavaliere). Le due angosce trovano la loro risoluzione nella danza macabra che chiude il film: la morte tutto coinvolge e tutto travolge, è la certezza invocata dal cavaliere, oltre la quale vive la speranza.

Ecco, con questo film abbiamo compiuto tutto il tragitto che va dall'angoscia a quella che potremmo chiamare - in termini correnti - la prospettiva apocalittica, la prospettiva della fine...[5]

 

La prospettiva apocalittica. La scienza malvagia.

Una doverosa precisazione: Il termine "apocalisse" (= rivelazione) ha assunto nel linguaggio comune il significato di "esito finale" terribile, distruttivo, catastrofico, ed è in questa accezione che useremo il termine.

Se l'esito aperto della parabola bergmaniana vede nella danza macabra la confluenza finale delle diverse angosce, nel cinema popolare, quello dei "generi", l'angoscia sembra puntare a una prospettiva apocalittica che si fa sempre più drastica e nichilista...

Non abbiamo la pretesa di fare del facile sociologismo, ma vorremmo allineare una serie di spunti e considerazioni per dare ragione di questa ipotesi di lettura.

Un saggio fondamentale, scritto da Sigrid Kracauer attorno agli anni Cinquanta [6], ci guida a vedere nel cinema espressionista tedesco, quello fiorito fra gli anni 1920 e 1925 - il cinema dei Caligari, dei Nosferatu, dei Golem,dei Mabuse - una cartina di tornasole di quello stato d'animo profondamente turbato e di quella perdita di valori da cui sarebbe sorto il nazismo, giusto l'assioma "il sonno della ragione genera mostri".

Kracauer ci propone anche un metodo, quando scrive nella prefazione allo stesso saggio: "E' mia persuasione che attraverso l'analisi dei film tedeschi sia possibile svelare le disposizioni psicologiche profonde predominanti in Germania dal 1918 al 1933, disposizioni che influirono allora sul corso degli avvenimenti e di cui bisognerà tener conto nell'era posthitleriana" e dunque propone "l'impiego del film come strumento di ricerca".

Un criterio riprese dallo studioso statunitense Stuart M. Kaminsky che propone di "fare della nozione di genere cinematografico uno strumento" poichè "i film di genere (...) esprimono riflessioni sulla vita, la morte, l'ignoto..." [7]

Dunque l'espressionismo tedesco è una delle prime manifestazioni, dopo la féerie di Méliès, della possibilità insita nel cinema di offrire una visione distorta della realtà, che può arrivare sino alla totale negazione del "verosimile", distruggendo le stesse coordinate ortogonali dell'immagine. E' questa immersione in una realtà instabile, distorta, più ancora della presenza di figure demoniache, a collocare lo spettatore in uno stato d'inquietudine, d'angoscia...

L'idea-guida che tali film suppongono è evidente: il sapere è malvagio, la scienza è cattiva, la stessa conoscenza è male... Sarà lo stereotipo a cui faranno riferimento anche i film del nutrito filone "horror" fiorito negli Stati Uniti attorno agli anni 1930-40: lo scienziato maledetto costruisce, genera mostri come Frankenstein. Ma la scienza può portare alla superficie anche la parte peggiore di noi, mettere in evidenza la nostra componente schizoide: il mister Hyde che vive nel cuore del dottor Jeckill. La scienza può addirittura produrre la totale perdita d'identità, creare un non-essere come ne L'uomo invisibile. La scienza dei nuovi Faust [8]. E siamo - senza la pretesa d'istituire facili collegamenti ma solo per tracciare delle coordinate -negli anni del grande sviluppo tecnologico pre-bellico, agli albori dell'era nucleare.

Jeckill, Frankenstein e affini: sono temi tratti in buona parte dalla narrativa, ma il cinema ne fa dei racconti di grande impatto popolare, delle rappresentazioni mitiche di paure e ansie comuni.

Il "mostro" non ha necessariamente un padre, può risorgere dal passato senza cause apparenti, come la Mummia o Dracula; così come, senza responsabilità personali,può scoppiare un'epidemia, risorgere una maledizione. Ben diversa l'emozione angosciante prodotta da questi film rispetto alla paura causata da un "film giallo", o dal "film gangster", che chiudono sempre con una risoluzione catartica: l'assassino catturato, la sedia elettrica o la scarica del mitra a far giustizia... Per distruggere il mostro che crea angoscia c'è solo il fuoco purificatore, ma dalle sue ceneri, novella fenice, il mostro può sempre rinascere: sonni agitati per lo spettatore!

 

Angoscia e guerra fredda

E' negli anni Cinquanta, quelli successivi al secondo conflitto mondiale, che l'angoscia sembra associarsi a un "genere" relativamente nuovo, anche se è possibile individuare degli illustri antenati, la "science- fiction" o fantascienza. Che si divide inizialmente in due filoni principali. Il primo, che attecchisce particolarmente in Giappone, elucubra su immaginarie "conseguenze post-nucleari": radiazioni atomiche che creano profondi squilibri nella natura generando mostri terribili, conferendo dimensioni macroscopiche a minuscoli insetti o resuscitando creature scomparse nei meandri della preistoria. Il Giappone rivive, in forma di metafora o di parabola, le sue angosce e i suoi incubi: Godzilla, lucertole giganti, mutazioni genetiche. E tutti questi mostri applicano, elevato all'ennesima potenza, l'inflessibile e spietato rituale delle arti marziali. Contro di essi non vale mobilitare eserciti, si può solo sperare nella "rivincita" della natura violata dall'uomo...

L'altro filone - statunitense - punta decisamente su prospettive extraerrestri: dallo spazio non giungono soltanto esseri buoni e comprensivi che recano messaggi di pace all'umanità (Ultimatum alla terra, 1952, di Robert Wise) e ci ammoniscono con l'autorità di saggi fratelli maggiori, ma anche e soprattutto minacce inafferrabili, timori, vere angosce cosmiche. Sono film che inducono nello spettatore un sentimento di panico senza referente, il terrore dell'accerchiamento fisico e psicologico. Punto di riferimento d'obbligo è il film L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel, del 1956, oggi documento insostituibile per renderci conto della psicosi indotta dal clima della "guerra fredda" degli anni Sessanta: ognuno di noi può essere trasformato, ad insaputa degli altri e addirittura a propria insaputa, in un essere "alieno", in un nemico dei suoi, pur conservando le medesime fattezze esteriori. Non è lecito concedersi tregue né debolezze. Anche tuo fratello, il tuo congiunto, la donna che ami possono essere già stati contagiati e "trasformati"... Siamo negli anni del più ferreo maccartismo, gli anni in cui prolificano i rifugi nucleari, della vigilia della Terza guerra mondiale (un film-documento come Atomic Cafè stigmatizza questa situazione di panico collettivo). La paura si trasforma in angoscia, da cui si può tentare la fuga con un grido disperato di allarme... Film decisamente mediocri come Blob (1958) ripetono e volgarizzano il messaggio: un alieno sotto forma di sostanza vischiosa può sommergerci tutti, inutile difenderci o fuggire...

 

Il filone catastrofico

E siamo agli anni Settanta, gli anni di un "catastrofismo" più estroflesso, senza più giustificazione ideologica, potremmo dire. Al timor panico nei confronti della "scienza cattiva", verso i postumi atomici, verso quel nemico alieno costituito dall'ideologia marxista - tutti pericoli per qualche verso indefinibili e difficilmente fronteggiabili - subentrano i pericoli ricordati dall'antica invocazione: "A peste, fame et bello, libera nos Domine". Incendi che distruggono palazzi e grattacieli, onde di piena che infrangono dighe, aerei che sfiorano il disastro: è il cosiddetto filone catastrofico (Airport, L'inferno di cristallo, Fuoco assassino, ecc.). L'individuo ritrova una sua posizione attiva, addirittura risolutrice, nei confronti di questi pericoli, all'origine dei quali c'è spesso un colpevole, qualcuno che ha agito male per trascuratezza o per smania di eccessivo profitto. Ma un individuo "buono", cioè un eroe positivo, può, se non evitare la catastrofe, perlomeno limitarne gli effetti, salvare il salvabile. Il tradizionale stereotipo dell'individualismo statunitense risorge in queste nuove forme. E dunque le emozioni angoscianti che dominano incontrastate per due terzi del film trovano una loro risoluzione: gli anni Settanta sono appunto quelli in cui, nel cinema popolare, l'azione per l'azione sta conquistando la supremazia ponendo in subordine il thriller, basato sulla tensione. Dagli anni Settanta-Ottanta ad oggi il film d'azione, basato sulla violenza, sarà il "genere" più battuto dal cinema americano.

 

Cinema e visione nichilista

Nel cinema popolare degli ultimi anni il sentimento d'angoscia si è fatto più totale, cieco, senza più alcun tipo di riferimento, legato ad alcuni stereotipi che cercheremo frettolosamente di analizzare. Essi sono principalmente, con beneficio di semplificazione: il timore della perdita d'identità, il timore della mancanza di un futuro, il terrore della solitudine, la totale assenza di ogni riferimento salvifico, quindi della speranza; il timore dell'epidemia intesa come contagio inevitabile, il senso della fatalità e della mancanza di un antagonista contro cui battersi e, infine, addirittura la perdita o la rimessa in discussione delle coordinate spazio-temporali che delimitano la nostra realtà e determinano i criteri di percezione e riconoscimento...

E' interessante notare come oggi il cinema dell'angoscia abbia recuperato ampio spazio proprio a partire dal film d'azione. La prospettiva futuribile e la rievocazione-invenzione di una sorta di "Medioevo prossimo venturo" si mescolano fra loro, anche figurativamente, nel filone cosiddetto "fantasy", dove spesso troviamo rappresentato un mondo del duemila ridotto allo spettro di quella Metropolis che Murnau disegnava nel suo film del 1926: città sventrate, uomini tornati ad essere selvaggi e primitivi, armi micidiali e incontrollabili che convivono con i sassi e le frecce della nostra preistoria. Il futuro non più concepito come lo scintillante mondo arerodinamico immaginato nei film degli anni Cinquanta, ma come un nuovo Medioevo, nell'accezione banalmente vigente del termine, un mondo di buio, di superstizioni, di violenza, di terrori: 1997 Fuga da New York, Classe 1999, Blade Runner...

Come sarà il mondo di domani? A questa domanda se ne sostituisce un'altra: ci sarà questo mondo? Avrà le stesse connotazioni di quello di oggi, sia pure amplificate dalle conquiste tecnologiche? I sopravvissuti, La fine del mondo, o, se si vuole, Il pianeta delle scimmie, ci presentano un mondo da “Day after”, da giorno dopo, l'azzeramento non solo delle civiltà ma anche dell'umanità. La violenza più disumana è diventata legge: 2013, la fortezza, L'implacabile, ecc.

 

 

 

Il nemico senza volto

Il nemico senza volto, la sostituzione della casualità con la fatalità, come si diceva all'inizio. Le parabole di Spielberg hanno aperto la strada (Duel, 1971). Il "cattivo" ha perso le sue tipiche connotazioni psicofisiche, oppure è il Leviatano biblico (Lo squalo, 1975)) o addirittura non è più un essere ma un'entità, una macchina, un non-essere, e la nostra condizione di perseguitati non ha più una causa, è una condanna senza colpa, è - come nel "Processo" di Kafka - una condizione esistenziale.

Talvolta, nelle nuove riproposte cinematografiche di temi già battuti in passato, l'ignoto antagonista può assumere una sembianza, farsi tangibile (Dracula di Coppola, 1992) ma, anche in questi casi, la sua presenza somiglia piuttosto a un ineluttabile flagello apocalittico. E come l'epidemia, come un Virus letale, anche il morso contagioso di Dracula non ha connotazioni etiche, non è in sé cattivo: "esiste" e basta. E può diventare addirittura oggetto di seduzione, si pensi allo stesso Dracula o a Candyman (1993), lo spietato, o meglio, l'amorale "signore delle api".

Altre volte il nemico si fa ancor più impersonale,il protagonista del film non è più minacciato dal tradizionale "cattivo" ma dal contesto sociale che lo circonda (La notte dei morti viventi di George A.Romero, 1969). Del contesto sociale è figlio anche il "pazzo", altro nemico innocente, la cui furia può colpirci senza motivo (Rollercoaster, Speed). Ma la pazzia può celarsi nel più "normale" degli individui, essere l'esito estremo di idiosincrasie vissute e condivise da ciascuno di noi (Un giorno di ordinaria follia di Joel Schumaker, 1993).

 

I "cicli" apocalittici

Credo che i lineamenti della prospettiva apocalittica propostaci oggi dal cinema popolare emergano con molta evidenza da alcune metafore che rappresentano i cicli più fortunati, e sotto certi aspetti espressivamente più validi degli ultimi anni. Parliamo di Highlander (tre film e una serie tv), Robocop (tre film e una serie tv), Terminator (due film) e Alien (tre film).

L'angoscia provocata dal timore della perdita della propria identità trova la sua metafora più compiuta in Robocop (il primo film, di Paul Verhoeven, è del 1987). Robocop è l'automa-macchina da guerra costruita a partire dal cervello di un poliziotto perito in uno scontro a fuoco. Film e telefilm ripetono gli scontri fra questo terribile giustiziere a servizio del bene - che usa una violenza di segno uguale e contrario a quella degli avversari - e un numero assortito di nemici sempre nuovi, politicanti corrotti, delinquenti comuni, terroristi eccetera. Il timore sempre incombente non è tanto quello che la macchina-robot possa restare parzialmente o totalmente distrutta nei vari scontri - una macchina la si può sempre riparare - quanto che la distruzione o la menomazione dei circuiti provochi in essa la perdita di memoria, del ricordo degli affetti precedenti, la moglie, i figli. Lo spettatore vive continuamente una situazione d'angoscia al pensiero che possa verificarsi questo trauma irreversibile: che la potente macchina di guerra possa restare solo macchina, senza un'identità, poiché tale identità può coincidere solo con la memoria. Dunque se la tecnologia ci fa più forti, al limite dell'onnipotenza, ci libra a questo pericolo sempre incombente, la perdita d'identità.

In secondo luogo è evidente, nei film ricordati, l'ulteriore e totale dissoluzione del concetto di "nemico" o di "antagonista", che ormai coincide di fatto con "l'ignoto". E questo si verifica mediante la progressiva distruzione di quelle coordinate spazio-temporali che consentono ad ognuno di noi d'individuare e collocare noi stessi e gli altri in una precisa realtà.

La distruzione delle coordinate temporali: Highlander (il primo film, di Russell Mulcahy, è del 1985) e Terminator (il primo film, di James Cameron, è del 1984) annullano totalmente la dimensione tempo: i due protagonisti vivono entrambi in un tempo trasversale, fatto di proiezioni nel futuro e di ritorni nel passato, quindi in un tempo alogico, non definibile. Quella che per La macchina del tempo e film analoghi (come il ciclo di Ritorno al futuro) era una scommessa eccitante, diventa una condanna. Il "tempo", per queste creature, è un tempo non tempo, non più l'agostiniana "distensio animis". Highlander è immortale, ma l'immortalità non è più una prospettiva esaltante, bensì una condanna. Perché l'immortalità comporta la solitudine e l'immortale, per sopravvivere - e non può fare altrimenti - deve uccidere e distruggere.

La dissoluzione dello spazio: come le epoche interferiscono fra loro così avviene per le creature di mondi diversi. Ma l'interferire di differenti "logiche esistenziali" non può che provocarne la fine, la distruzione...

Dunque perdita totale delle dimensioni spazio-tempo, una situazione paralizzante di angoscia, così bene individuata nel primo film del ciclo di Alien (di Ridley Scott, 1979), dove il tempo è un'entità puramente soggettiva, che la periodica stasi dentro i tubi criogeni rende arbitraria e svincolata dal "tempo" del pianeta d'origine e dove il mostro, l'incognito, non è mai reso totalmente visibile, ma è una minaccia e un'immagine terrificante che si costruisce progressivamente nel nostro cervello.

Quali sono gli esiti, le prospettive apocalittiche, di queste nuove angosce? [9] Non più la difficile vittoria dell’individuo, o forse la fortunosa fuga


verso un "mondo migliore", ma l'autodistruzione, la scomparsa: Terminator si cala nella fornace ardente, l'eroina di Alien distrugge nel fuoco la creatura terribile di cui ora è involontaria genitrice, Highlander vive la propria immortalità come una maledizione e cerca continuamente la morte. Come le protagoniste di Thelma e Louise (1990), questi eroi celebrano nell'autodistruzione la vittoria del sogno.

In definitiva, così come l'espressionismo tedesco distruggeva le coordinate ortogonali e prospettiche della realtà, l'ultimo cinema a cui abbiamo fatto riferimento distrugge le coordinate spazio-temporali e la stessa linea di demarcazione fra realtà effettuale, realtà possibile, fantasia e realtà virtuale; Atto di forza di Verhoeven (1990), Il tagliaerbe di B.Leonard (1992), e poi Super Mario Bros, Killer Machine: entrare e uscire dal mondo parallelo della realtà virtuale, proiettarsi in essa, non è più difficile che infrangere le dimensioni spazio-temporali che ci accolgono solitamente, ma questo ipotetico arricchimento, in quanto dilatazione delle nostre potenzialità, di fatto ci impoverisce, fa di noi delle pedine da videogame, aumenta dunque quel sentimento di totale instabilità e precarietà che corrisponde all'angoscia. E il cinema popolare ce ne dà ampio atto.

Abbiano tralasciato completamente un elemento importante: la "favola", la costruzione di un racconto fantastico, non realistico, è sempre stata resa possibile nel cinema dalla scoperta delle potenzialità della macchina, non solo di ritrarre la realtà ma di crearne una propria; con la scoperta del cosiddetto "trucco": da Meliès ai nuovi prodigi della computer-graphica e dell'informatica. Sono le nuove possibilità di elaborare l'immagine reale a consentire queste ed altre mirabolanti costruzioni. Ma è un discorso complesso che ci porterebbe lontano: valga l'avervi accennato.

 

Conclusioni

In definitiva il cinema popolare disegna oggi una prospettiva apocalittica di sapore e colore decisamente nichilista. La speranza non può più allignare nel cuore dell'uomo, l'azione per l'azione non basta più, eppure è l'unica possibilità di affermare la vita. La violenza è l'unico strumento di autoaffermazione. Mentre l'unico atto d'amore verso il futuro che l'eroe, il super-uomo possa fare non è battersi ma autodistruggersi nella speranza di un "dopo" migliore, o forse addirittura per favorirlo.

Ecco, questa schematica e frettolosa lettura vuol chiudere con una considerazione finale. Quando si vorranno ripercorrere i timori, le angosce, le prospettive apocalittiche degli ultimi cento anni, si dovrà ricorrere anche al cinema. E il cinema di "genere" potrà fornirci indicazioni preziose, punti di riferimento non trascurabili. Riprova, se ce ne fosse bisogno, che il cinema è veramente la memoria del secolo, non solo degli accadimenti, ma degli stereotipi, dei punti di riferimento, degli stati d'animo, dei materiali dell'immaginario collettivo, delle tensioni e dei miti...



[1] Sergio Trasatti (a cura), Il Papa a Hollywood, Ente dello Spettacolo, Roma 1988

 

[2]  Card. R.Mahony, In dialogo con Hollywood, "Il Regno. Documenti", 9/93, 1993

 

[3] Mauro Wolf, Generi e mass media, in "Il Palinsesto, testi apparati e generi della tv", a cura di G.Barlozzetti, Comunicazione e Società, Franco Angeli, Milano 1986

 

[4]  Leandro Castellani, I documenti sonori e visivi come strumenti creativi di memoria storica, in "Atti del Convegno Internazionale "Immagini in movimento: memoria e cultura", La Meridiana ed, 1990.

 

[5]  Leandro Castellani, Temi e figure del film religioso, Elle Di Ci, Torino 1994

 

[6]  Il famoso saggio di S.Kracauer, From Caligari to Hitler esce a New York nel 1947.

 

[7]  Stuart M. Kaminsky, Generi cinematografici americani, Pratiche, Parma 1994

 

[8] L'epigono aggiornato di questi mostri creati dallo "scienziato maledetto" si troverà ne Il pianeta proibito del 1956, in cui il mostro alieno altro non è che l'Es, il subconscio dello scienziato stesso.

 

[9]  Non si può sottacere l'apporto determinante di un autore come Stephen King, oggi il più letto nel mondo, nel disegnare un universo di incubi senza risoluzione, di terrori senza sbocchi, di angosce senza speranza, universo che è stato puntualmente trasferito sullo schermo (basti citare Shining di Stanley Kubrick, 1980).