giovedì 19 gennaio 2023

Leandro Castellani - LA MIA TV - PROLEGOMENI

 

 

Alle ore 9,42 dell’11 gennaio 2023, usando la tastierina istallatami da mio figlio Aldo Emanuele Castellani, pongo mano a questo supplemento di memorie. Mi correggo: pongo mano ai “Prolegomeni a qualsiasi altro mio scritto che voglia dirsi o costituirsi come esaustivo.” Il tutto alla vigilia di un malefico evento che non nomino perché andato a vuoto, nonché della presentazione al pubblico fanese della mia autobiografia, bonaria e ottimistica, ma non certo buonista, edita da Amazon, che sarà presentato e posto in vendita il 27 di questo mese

Cosa narrare ancora? Nulla di nuovo. Ma forse specificare meglio che cosa ci sono venuto a fare nel mondo infido, variegato e meraviglioso dello spettacolo, per gli scarsamente informati.

Quindi, bando all’umorismo – ammesso che la faccia a farne senza -  e comincio questo mio nuovo e compendioso lavoro con leggeri brividi alla base della schiena e brontolii al gran simpatico.

Come consuetudine per uno scrittore che si definisca tale, comincio in medias res, visto che ormai sono già passati circa venti minuti e si son fatte le dieci.

 

1.

Abbandono Fano poco più che ventenne. Alla mia città natale ho regalato qualche spettacolo allegro, da periodo carnevalesco, nel “piccolo teatro” inventato dal nulla presso la parrocchia di San Marco. Inoltre – stavolta assieme agli amici Luciano Anselmi e Paolo Petrelli - ho tentato di dar nuovo fiato alla storica Filodrammatica Cesare Rossi, ideata vent’anni prima dal prof. Italo Mengaroni e che ha galvanizzato i giovani della generazione precedente alla mia. In più – ma dovrei dire in primo luogo - sono stato assiduamente e volontaristicamente presente nelle organizzazioni del laicato cattolico, prima fra tutti l’Azione Cattolica e poi la Federazione universitaria, la Fuci, mentre mi sono programmaticamente e un po’apoditticamente astenuto dal frequentare i luoghi topici del vitellonismo locale, dalla pista da ballo del Florida agli storici tavolini del Caffè Centrale, nonché i ritrovi abituali della vigorosa goliardia provinciale, pur conservando rapporti di amicizia con tutti o quasi i miei coetanei senza mai ostentare presuntuose ostilità o intolleranti ritrosie.

A Roma, dove sono stato inizialmente e abbastanza prodigiosamente cooptato per meriti di “volontarismo giornalistico”, lavorerò alla rivista universitaria “Ricerca” per circa tre anni, mentre concludo i miei due corsi di laurea sostenendone le tesi, faccio apprendistato giornalistico e organizzativo, scrivo recensioni (e reportages dal Festival di Venezia) per il più antico periodico italiano di cinema, quella “Rivista del cinematografo” che vanta precedenti e firme illustri. Poi, ritenendo pleonastico il lavorare ancora presso un’organizzazione universitaria, dopo aver conclusa la mia esperienza e ottenuto le mie lauree, mi appresto a tornare in patria. Le mie numerose collaborazioni giornalistiche – condotte in modo professionale quanto ritroso – non sono tali da trattenermi ancora nella capitale, di cui ho evitato - per scelta intellettuale e forse caratteriale - i luoghi topici del salottiero nonché i circoli intellettuali impegnati, quelli nei quali ci si può mettere in mostra e puntare a far carriera. Decido di ritornare ai miei lidi, nei quali vivono i miei amatissimi genitori e sorella, e mi accingo a vagliare alcune proposte d’insegnamento della storia e filosofia in istituti secondari della mia Regione, materie per le quali ho già sostenuto in modo estremamente brillante e positivo il cosiddetto Esame di Stato.

Ma alla vigilia della mia partenza da Roma, un amico – per la cronaca un altro esule dalle Marche, Daniele Cavalli, figlio del noto fotografo, senigalliese adottivo – mi segnala un Concorso pubblico che sta per chiudersi: si cerca nuovo personale in previsione dell’apertura di un secondo canale televisivo. Faccio ancora in tempo? Mi iscrivo. Partecipo alla prima selezione scritta, che vede assiepati sui banchi, dispersi in vari siti della penisola, ben diecimila aspiranti. Vengo  ammesso alla successiva selezione orale. Mi si sussurra che sia arrivato primo su diecimila. Uno  stage di circa un trimestre per i ventinove vincitori della prova orale. Il tutto nel giro di pochi mesi, mentre l’Italia è in fermento per la febbre delle gloriose Olimpiadi del Sessanta. Ma tutto questo l’ho già narrato nella mia Autobiografia. Che mi ripeto a fare?

 

2.

Andiamo avanti. A questo punto dovrei fare un po’ la storia della Televisione italiana partendo dalle origini, ma non è che ne sappia molto e quanto disponibile alla lettura non sempre è attendibile. Cerco di riassumere i fatti, appresi soprattutto per sentito dire. Periodo sperimentale a Milano, L’EIAR, benemerita e inquinata industria detentrice della licenza per la radiofonia, si è rinnovellata nel primo dopoguerra cambiando il nome in RAI – Radio Audizioni Italiane - e apprestandosi ad aprire un canale televisivo. Primo periodo di sperimentazione in Corso Sempione a Milano, mentre a Roma la vecchia dirigenza massonica, proveniente in massima parte da Torino, deve cedere terreno a nuovi equilibri politici in ascesa.

Soprattutto per sentito dire conosco la mitica storia della parabola Guala. Filiberto Guala, abile manager torinese, già amico del defunto futuro santo Pier Giorgio Frassati, nominato Amministratore Delegato della RAI con pieni poteri, cercherà di mettere in piedi una tv formatrice e, se possibile, riformatrice, in un paese povero, reduce da una guerra disastrata e disastrosa, affettato e diviso fra nord e sud nonché di elevato analfabetismo. Nascono i primi programmi, mentre personalità nuove o inventate o riciclate, giornalisti provenienti, almeno in parte, dalla cosiddetta corrente catto-comunista, studiano e abbozzano i primi programmi. Dal cinema un po’ di secondo piano ma anche dal teatro e dalle nuove leve giovanili si pescano registi e realizzatori in grado di apprendere e poi mettere in campo, in modi “rivenduti e corretti”, quanto si sta già facendo  negli Usa e altrove. Con un primo Concorso pubblico si cercano nuove leve, specie in ambito milanese, fra gli allievi di Mario Apollonio,  teorico del teatro, nonché fra quelli dell’Accademia di Silvio D’Amico e particolarmente fra i transfughi più “impegnati” dalla Università Cattolica del Sacro Cuore. Fra i nuovi assunti il filosofo Gianni Vattimo e poi Furio Colombo, Umberto Eco, Sergio Silva, Fabiano Fabiani, Emanuele Milano, Federico Doglio, Giovanni Leto, molti dei quali costituiranno, in tempi più o meno accelerati, le solide spalle della nuova impresa. Reazione della vecchia consolidata staff massonico-radiofonica che bolla i “nuovi” con l’infamante appellativo di “corsari”.

La faccio breve: cataclismi vari, incompatibilità politiche, ostilità interne ed esterne. Filiberto Guala, vista l’impossibilità di varare il nuovo, rinuncia anche al vecchio e finirà per gettare la spugna e arrendersi alla sua più autentica vocazione facendosi monaco trappista. I suoi uomini nuovi vengono disseminati fra i vecchi o addirittura messi al bando. Ma ho condensato inizi, aspirazioni  e battaglie di questa prima tv italiana in un saggio, La TV italiana ha cinquant’anni, pubblicato sull’importante rivista “Il Veltro” (n.3-4, maggio-agosto 2004).

 

3.

Al tempo del mio ingresso nella già corposa compagine televisiva della Rai sembra che la situazione stia ancora una volta per cambiare. Pier Emilio Gennarini, forse il principale braccio armato della fallita rivoluzione di Guala, essendo stato il primo a concepire un organico “piano editoriale” e soprattutto una “mission” per una giovane tv formatrice e informatrice, dopo la scontata quarantena sembra riprendere quota e spera che il nuovo Concorso pubblico – di cui è l’artefice e il “patron” - nonché la prospettata imminente apertura di un nuovo canale, possano finalmente varare una rinnovata e ritrovata tv, sotto l’egida del nuovo direttore generale, Ettore Bernabei, fanfaniano di ferro, solidamente legato al potere politico ma in certo qual modo “garante” del nuovo. Vincerà?

La prima battaglia democratica Pier Emilio Gennarini l’ha già vinta alcuni anni prima, nel 1958, varando un ciclo di documentari, Cinquant’anni 1898-1948, in cui si affrontano “fra cronaca e storia”,  senza pregiudizi ma con la dovuta cautela, argomenti e fasi storiche recente come il prefascismo, il fascismo, la seconda guerra mondiale e la Resistenza. Grandi polemiche ma grande successo. Il merito di Gennarini, promotore e difensore dell’iniziativa,  firmata dal giornalista Silvio Negro e dal regista Gian Vittorio Baldi, va girato almeno in buona parte  all’effettivo giovane capo-equipe dei realizzatori, quel Sergio Silva che incontrerò e ritroverò più tardi come mio Dirigente nel Servizio Cultura e poi promotore e gestore delle mie Cinque giornate di Milano.

Ma Gennarini perderà, almeno per il momento, la sua battaglia. Si limiterà a cooptare nel suo fantomatico Servizio Studi solo due elementi del Corso, Liliana Cavani e il sottoscritto, dirigendoli verso impegni di tipo realizzativo. Tutti gli altri nuovi “corsari” verranno dispersi per i meandri dell’organigramma.

 

In questi primi anni di vita la tv italiana ha affrontato la “prosa”, sia i classici che i moderni e i nuovi autori, affrontando con coraggio e un pizzico di spregiudicatezza un vasto repertorio teatrale e letterario italiano e straniero. E poi ha inventato gli  “sceneggiati  seriali”, utilizzando il ricco carniera di attori creati dal teatro di prosa e di rivista, e scoprendone altri. Ad Anton Giulio Majano, vero creatore del “genere” si sono affiancati altri nomi, da Sandro Bolchi a Edmo Fenoglio, al giovane e promettente Giacomo Vaccari, prematuramente scomparso. Mentre Antonello Falqui con Guidino Sacerdote hanno creato i grandi spettacoli di “varietà” per l’imperdibile “sabato sera”.  

Tutti spettacoli più o meno “fatti in casa”, all’interno degli studi Rai e con maestranze dell’azienda. Con pochi  apporti esterni. Quanto al  reportage giornalistico e al “documentario” i nuovi realizzatori hanno cercato di affrontare e raccontare un’Italia spesso ignota agli stessi italiani.

Ed eccomi  arrivato al terzo punto, cioè alla vigilia del mio ingresso in Rai.

 

4.

Non sto a raccontare di nuovo la mia storia. L’ho già fatto e “ad abundantiam” nella mia ponderosa autobiografia.

Quando, agli inizi degli anni Sessanta, incontrai la televisione ero molto giovane ma la tv era più giovane di me: era proprio una bambina, ancora alla ricerca di modi di essere e di esistere. Attingeva a piene mani al repertorio  teatrale nonché alle sobrie ma sostanziose compagini di attori creati dal medesimo. E utilizzava tecniche cinematografiche piuttosto elementari, scoprendo il ruolo privilegiato di certi elementi di linguaggio solitamente tenuti in subordine, come la tecnica del campo-controcampo, l’importanza essenziale dei “piani ravvicinati”, in particolare del “primo piano”, a scapito del campo lungo e lunghissimo. Grazie anche alla cooptazione di tecnici e maestranze importate, soprattutto dal “cinema di genere”. Il tutto allestito in pochi studi fra Roma e Milano, con scenografie elementari, l’utilizzazione di due - massimo tre - telecamere ingombranti, una sola delle quali fornita di carrello, con varie limitazioni per quanto riguarda i contrasti, il controluce, le  panoramiche veloci e così via. E con un montaggio di sequenze, atti teatrali, azioni, tutto “fatto a priori”, cioè fissato prima della registrazione.

Per strada feci molte esperienze, imparai molte cose, ma altre a mia volta ne insegnai a quella bambina ancora ingenua che era la tv, peraltro aperta alla vita e desiderosa di imparare.

 

Cominciamo dai documentari, perché ho iniziato con i documentari, o meglio con le inchieste: due generi che usano in parte gli stessi materiali ma con finalità diverse. Il documentario documenta – nasce dal cinema – mentre l’inchiesta indaga – nasce dal giornalismo – propone, fornisce pezze di appoggio alla scoperta di un fatto o per verificare un’ipotesi.

Agli inizi degli anni Sessanta esistevano due modi di fare documentari alla tv. Il primo riprendeva la tecnica dello stagionato documentario cinematografico nostrano – medio e cortometraggio – applicando una grammatica tassativa o quasi. Si cominciava con un gran “totale” in “campo lungo” di un paesaggio o di una città, poi si passava a un “campo medio”, a un campo ancora più ravvicinato o a una panoramica estenuantemente lenta – da destra a sinistra o dal basso in alto –, mentre una voce “fuori campo” declamava un testo pseudopoetico che spesso andava per conto suo. L’ultima immagine del film era quasi sempre un tramonto. Annualmente i cortometraggi cinematografici – spesso usati come micidiale “complemento programma” per le sale cinematografiche, al pari dei cinegiornali e dei “prossimamente” -  presentavano domanda per i previsti premi ministeriali. Era storia corrente e risaputa che un’unica società, amministrata da un produttore che era anche lo sposo di una brava attrice di prosa, si accaparrasse tutti i premi, che volonterosi registi in erba realizzavano u sua commissione con esigui tassativi metri di pellicola a disposizione, su temi pseudoturistici e culturali. Senza eccezioni. Le uniche quanto mai sporadiche eccezioni forse per qualche cineasta di chiara fama. Per esempio il mio maestro Nelo Risi si era aggiudicato un premio per un cortometraggio dedicato al delitto di Giacomo Matteotti. Ne ricordo alcune intense immagini che  documentavano l’estremo viaggio della salma rinvenuta attraverso il tragitto ferroviario fra i paesi della Bassa.

Il secondo modo di fare documentario era quello introdotto dai nuovi telecronisti che avevano scoperto una maniera più vivace per effettuare le riprese – invertibile in 16mm. –, spezzando la vecchia grammatica del cine-documentario grazie all’introduzione delle “interviste”, o pseudo-tali perché quasi sempre con testo messo a punto e iterato più volte alla ricerca della versione più lineare e senza pause, con buona pace della spontaneità o della “verità”. Non dovevano mai apparire microfoni in campo e molto raramente comparivano gli intervistatori, se non quelli di chiara fama come lo scrittore-regista Mario Soldati e, più avanti, lo scanzonato Ugo Gregoretti. O il cronista sportivo Sergio Zavoli, con i suoi “processi” alle tappe del giro d’Italia.  E con la debita eccezione di alcuni “stili” personali: nel 1948, Carlo Alberto Chiesa aveva vinto il primo Prix Italia della Sezione Documentario con una “finta” diretta della mattanza di tonni in Sicilia, in realtà realizzata e montata a più mani. Ugo Gregoretti aveva bissato il Premio nel 1960 con un divertente racconto fra poesia e umorismo sulla Sicilia de Il Gattopardo.

 

5.

E veniamo a me. I miei non erano documentari e neppure cronache tele-giornalistiche. Intanto tiravo in ballo la Storia, remota e recente, argomento quasi tabù. E insieme ripudiavo del vecchio cine-documentario la vecchia grammatica stantia, disprezzando i campi lunghi a favore del primo piano e del dettaglio. Poi introducevo una sorta di teaser – che io avevo battezzato “pretitolo” –, ovvero una breve aggressiva premessa di un minuto, poco meno o poco più, per catturare l’attenzione dello spettatore sul tema affrontato e dibattuto nel corso del programma, ponendo gli interrogativi aperti che poi avrebbero trovato risposta, o perlomeno sviluppo. Sino ad allora, non ci aveva pensato nessuno. Poi lo avrebbero adottato in molti.

L’operazione andava di pari passo con la messa a punto del commento parlato che avevo reso strutturalmente più povero: frasi brevi, senza tema di ripetere i nomi propri dei personaggi al posto dei pronomi, ritmo e scansioni agevoli per la lettura dello speaker senza elucubrati tentativi di variazioni giornalistiche né tanto meno tentazioni letterarie, insomma un commento parlato   icastico, martellante, incisivo. Anche qui senza paura di usare gli stessi termini, di iterare ogni volta i nomi, inseguendo soprattutto la chiarezza, usando paragoni verificabili quanto si trattava di citare cifre.  Audio e video nascevano insieme. Sconcertava molti colleghi che mi portassi in moviola la macchina da scrivere per far lavorare in simbiosi audio e video.

Un’inchiesta su fatti e personaggi della storia non doveva essere un programma di nicchia ma, al contrario, doveva essere fruibile anche da un pubblico non particolarmente acculturato.

Fu un esperimento nuovo, cui corrispose un esito estremamente positivo, più tardi sancito dalla vittoria del Prix Italia.

Avrei adottato sostanzialmente la stessa formula e lo stesso linguaggio anche nelle mie inchieste degli anni Sessanta-Settanta, tra le quali: Il caso Rajk, Il segreto di Rudolf Hess, L’assassinio di Trotsky, Operazione Alsos, Jean Jaurès apostolo del pacifismo, Marsiglia 1934. I testi raccolti nel volume Giallo storia, anche se rivisti e adattati per la pubblicazione, possono suggerirne un’idea.

Altra innovazione: il ripudio – per quanto riguarda la colonna sonora – di un commento di tipo… pastorale, vagamente sinfonico, insomma di stampo classico, cosiddetto “d’epoca”, adottato di solito in programmi del genere ed ereditato dalla tradizione documentaristica, in favore di un commento musicale decisamente moderno. Anche stavolta, la ricerca di coloriture musicali non avulse dal connubio parola-immagine: decisi che il commento musicale non doveva essere necessariamente coevo alle immagini usate, ma che doveva rispondere alle sottolineature emotive volute dall’autore.

 

6.

Misi definitivamente a punto questo nuovo modo di fare inchiesta

quasi per caso, anzi: potrei dire su commissione, quando ricevetti l’incarico di organizzare in un racconto una serie di interviste ai maggiori scienziati nucleari che, in base a un mio soggetto sulla Storia della bomba atomica, peraltro ispirato dal libro Gli apprendisti stregoni di Robert Jungk, altri si erano curati di raccogliere. In particolare era stato Virgilio Sabel, nei momenti liberi da un suo corposo impegno documentaristico per il mondo circa le ultime novità tecnologiche. Quelle interviste erano state parzialmente doppiate ma di fatto abbandonate in moviola come praticamente irrecuperabili o inservibili.  

Mi resi conto che sarebbe stato troppo semplicistico ed elementare – quanto noioso per me e per i futuri fruitori – limitarmi a giustapporre le interviste a materiale di archivio, a mo’ di centone, seguendo la falsariga cronologica dei fatti e scrivendoci sopra un minimo di commento esplicativo. Non era questa la strada giusta. Il materiale di archivio a cui sarei ricorso doveva servire innanzitutto a motivare, incalzare, “inquisire” i testimoni intervistati. Non dovevo limitarmi ad arricchire le loro risposte, forse troppo lunghe o pleonastiche, con alcune immagini. Le immagini non dovevano servire ad “alleggerire” le risposte dei testimoni intervistati – rischiando addirittura di distrarre o deviare lo spettatore –, ma dovevano servire a motivare le domande, gli interrogativi, i perché, rendendole esaustive e... aggressive. E gli interrogativi introduttivi dovevano essere utilizzati anche per presentare il personaggio chiamato in causa, il suo contributo alla storia, le sue responsabilità, ma tutto questo solo grazie alle immagini senza nessun intervistatore logorroico e indisponente. Era la voce narrante ad assumersene il compito.

Occorre tener presente che, negli anni Sessanta, non c’era la possibilità di accedere a molti archivi giornalistici e cinematografici  stranieri per procurarsi materiale fresco, quindi il materiale disponibile era più o meno consunto e già visto, tra cui quello targato LUCE e INCOM. Decisi di usare per quanto possibile il materiale di repertorio usandolo come cifra, come icone evocatrici in una netta rispondenza fra immagine e commento parlato, con un montaggio serrato che seguisse più le tecniche degli “audio visual aids” che quelle del vecchio documentario di derivazione cinematografica o dell’abborracciato giornalismo televisivo. Non era importante cercare ogni volta immagini inedite o nuove per documentare una battaglia, uno scontro, un momento della ricerca scientifica, un dibattito politico, un fatto di costume, eventi e situazioni. Anzi risultava utile, se non essenziale, iterare le stesse immagini – in parte già viste e conosciute – assumendole come simbolo, come promemoria, come riproposta di un volto o di un evento. Insomma: come una sorta di sigla-emblema di un fatto o di un personaggio, spesso isolando le immagini dal loro contesto originale, dallo spezzone di cinegiornale da cui provenivano. Inoltre le immagine potevano servire non solo a richiamare e documentare un evento del passato, un personaggio, ma anche ad evocare, a proporre metafore o eloquenti allegorie: una veloce carrello , una panoramica, un mare in tempesta, una folla agitata, un giro di valzer, la corsa sulle montagne russe del LUNA PARK. Tutte immagini che potevano assumere un intuibile significato metaforico.

Si trattava per me di costruire una sorta di sceneggiatura a posteriori per riuscire a comporre, basandomi su documenti filmati e materiali iconografici nonché sulle interviste girate, non tanto un resoconto piattamente oggettivo sulla costruzione della prima arma atomica quanto un’indagine che chiamasse in causa gli stessi protagonisti. Una sorta di giallo in cinque/sei puntate. Fu un lavoro molto complesso, svolto prevalentemente alla moviola, da cui uscì un tipo di costruzione nuova, che non era né un’inchiesta giornalistica né un mero resoconto storico. Accostando fra loro come in un puzzle le diverse “pezze di appoggio” costituite dalle testimonianze-intervista, invitavo il telespettatore a mettersi anche lui alla ricerca dei fatti e dei dibattiti che avevano determinato il lancio dell’atomica su Hiroshima.

L’inchiesta diventava anche e soprattutto riflessione morale.

 

7.

Dopo il Prix Italia conquistato nel 1965 ci fu il secondo passo: con alcuni “scarti” delle interviste raccolte per la Storia della bomba atomica, arricchiti da materiali di archivio e da due nuove interviste raccolte da me, compongo L’enigma Oppenheimer, a tutt’oggi l’inchiesta più premiata della televisione italiana. Ottenni il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia e quella fu la prima volta che una produzione RAI vinse un massimo Premio per il documentario. Poi ricevetti il Premio Guglielmo Marconi come miglior programma dell’anno, il Gran Premio della Critica Internazionale al Festival della tv di Montecarlo e ancora altri riconoscimenti.

L'enigma Oppenheimer sviluppa ulteriormente le soluzioni adottate per la Storia della bomba atomica. Scompare del tutto la linea di demarcazione fra racconto e testimonianza diretta. Il racconto della vita del “padre della bomba atomica” coincide con il tentativo di recuperarne la biografia per approssimazioni successive, mediante documenti e testimonianze che, a loro volta, costituiscono punti d'appoggio per proporre nuove ipotesi, lumeggiare aspetti ignorati, aprire nuovi interrogativi. In breve, fare della "ricostruzione" di un personaggio più un "problema" che un "dato di fatto". A Parigi avevo scovato e intervistato Haakon Chevalier, l’uomo accusato ingiustamente da Oppeheimer di essere una spia atomica.

Non posso sottacere il fatto che le mie “intuizioni” di linguaggio fecero scuola e contribuirono a rinnovare e rinfrescare tecniche e modi del documentario televisivo. Temi, stilemi e montaggio spregiudicato vennero celermente imitati e utilizzati da tutti i settori della tv.

 

Il mio programma L’enigma Oppenheimer conteneva in fieri un suggerimento audiovisivo: quello di rappresentare, più che di citare testi, era per qualche verso un “Teatro-Inchiesta” ma ancora proposto solo in immagini e documenti graficamente elaborati in truka e animati col montaggio. Quasi un’involontaria premessa alla mia creazione di un nuovo format: il teatro inchiesta.

Nel 1967 creai e misi a punto un nuovo format, ma a quel tempo la parola “format” non esisteva e nemmeno i copyright per certificare il diritto di autore. Quando il primo ciclo del nuovo format  ebbe successo, ci fu la corsa per assicurarsene la paternità: dal funzionario tv che l’aveva promosso sino al direttore di Rete. Tutti padri e creatori!

Teatro-Inchiesta (1967): la battezzai così. Una formula per raccontare alcuni momenti della cronaca passata e della storia recente basandomi sui documenti testuali. L'elemento "teatro" - inteso come ricostruzione di tipo teatrale, con l’uso di attori - per drammatizzare e raccontare tali documenti, evitando tassativamente di ridurli a pretesto per un generico "sceneggiato": il programma doveva restare fondamentalmente un'inchiesta, costruita sulla dialettica serrata fra indagine televisiva e ricostruzione.

Forse qualche anno più tardi mi accorsi di aver inventato il docu-drama o docu-fiction o docu-film che dir si voglia. Prima, dopo oppure contemporaneamente ai francesi e agli americani? Vallo a sapere!

La mia formula, oltre tutto, avrebbe aperto nuovi spazi di drammaturgia televisiva scavalcando le regole di compartimenti-stagno, rigidamente invalicabili, che vigevano ancora in RAI, severe e tassative divisioni fra i vari Servizi (documentari, “prosa”, rivista e così via), altrettante pastoie per chi volesse fare, non già prosa, cinema, documentario, ma quel pastiche di generi che – guarda un po’? - si chiama appunto “televisione”.

Teatro-inchiesta rompeva questi opinabili compartimenti-stagno. Era un’idea semplice: il documento testuale può fornire spunto per un’azione drammatica basata su fatti e testi storicamente verificati, l’azione drammatica può costituire una predella, una pezza d’appoggio per proseguire l’inchiesta con altri strumenti: l’intervista, la ripresa documentaristica, l’iconografia.

In cicli successivi, e con varie collocazioni, la formula fu assai feconda e sopravvisse sino al 1973.

 

8.

Dovrei pendere per buona la definizione di Carlo Scaringi sul Radiocorriere TV: “Leandro Castellani è in certo senso il padre della storia in televisione.” ? Penso proprio di sì. E forse anche il padre di un modo diverso di concepire e realizzare uno sceneggiato storico, come avrei dimostrato nelle mie Cinaue giornate di Milano.

Gli unici precedenti, per quanto riguardava questo tipo di sceneggiati, erano legati a visioni tradizionalmente vetero-patriottiche come Ottocento di Anton Giulio Majano, tratto dall’omonimo romanzo di Salvator Gotta, o i cicli de I grandi camaleonti sulla Rivoluzione Francese. Con Le Cinque Giornate di Milano, che riscrissi e sceneggiai da capo, sia pure appoggiandomi al lavoro preparatorio del milanese Luigi Lunari, proposi una lettura del tutto inedita del nostro episodio risorgimentale, al di fuori della retorica patriottarda: la visione federalista ed europeista di Carlo Cattaneo, il pre-gattopardismo conservatore dei filosabaudi (Casati & C.), l’estremismo rivoluzionario dei guerriglieri urbani ante litteram (Enrico Cernuschi). Guerriglia milanese contro esercito austro-ungarico. Una visione del tutto inedita, ma trascritta nei moduli del romanzo popolare, quello che occupava il prime time esclusivo della domenica, con il dovuto spazio riservato all’immancabile storia d’amore, ma stavolta strettamente collegata alla vicenda politica e basata anch’essa su inediti quanto ineccepibili documenti storici.

Inoltre, mi permisi un’incursione sul terreno del mio “teatro inchiesta” proponendo, nella quinta e ultima puntata, la rievocazione dell’episodio di Porta Tosa non in termini di rappresentazione ma attraverso la lettura delle pagine dell’Archivio Cattaneo proposte direttamente dagli attori in abito borghese, disponibili a calarsi successivamente nei personaggi della ricostruzione-finzione. Un espediente un po’ brechtiano che userò di nuovo nel 1975, nel Tommaso d’Aquino. Uso totale ed esclusivo di due cineprese 16mm. per le scene di guerriglia e di azione. Anche il materiale registrato con tecnica elettronica - gli interni negli studi di Corso Sempione - trascritto su pellicola: avrei montato il tutto da solo, con la mia moviola di Roma. Una tecnica poi adottata anche per lo sceneggiato in due parti Orfeo in Paradiso. Dal punto di vista formale questo lungo film televisivo avrebbe preso il largo dai tradizionali confini dello sceneggiato, nonostante restasse l’ambizione di non disperdere lo stesso vasto pubblico del prime time:  come  di fatto avvenne!

 

I miei numerosi sceneggiati o film-tv, legati a personaggi storici  o momenti della storia remota o recente, corrono dunque su questo binario agli antipodi della cosiddetta “biopic”, quella basata sulle formule standard della sceneggiatura all’americana – i tre atti, la scansione dei plot e così via –, che invece finirà per informare le biografie storiche degli anni Duemila e che oggi è diventato una sorta di modulo obbligato. La mia proposta di lettura continuava ad essere, per qualche verso, quella dell’inchiesta: muoversi alla ricerca dei motivi in serrata dialettica, l’interesse deve scaturisce dai fatti, dai personaggi e non nella supposta drammatizzazione di avvenimenti che drammatici già lo sono.

Così, anche nel mio racconto dell’epopea dell’Ossola, Quaranta giorni di libertà, ho rifiutato il consueto bandierone resistenziale ormai di prammatica per descrivere in termini volutamente didascalici una Resistenza composita, a più facce, mirando non tanto alla generazione dei nostalgici con un’operazione alla “come eravamo” – forse auspicata dalla committenza -   ma puntando al pubblico della generazione successiva, cioè la mia, che di fatto non ha né conosciuto né vissuto appieno la temperie resistenziale. Un “cinema povero”, come lo definì con leggero intento polemico lo sceneggiatore Luciano Codignola, senza faraoniche ricostruzioni “all’americana”.

In definitiva credo che, anche nel campo dello sceneggiato, il mio apporto sia stato abbastanza rivoluzionario sia nelle tecniche sia nei contenuti.

 

9.

Agli inizi degli anni Settanta affrontai i miei più complessi nonché fortunati lavori all’interno degli studi televisivi della RAI (Torino e Milano), che ormai frequentavo e praticavo al meglio nell’intento di rompere la monotonia e la lentezza dei più ammirati sceneggiati, connaturata alla prassi d’uso della vecchia tecnica di ripresa televisiva: poche e pesanti telecamere da trasportare da un ambiente scenografico all’altro con relativo trascinamento di ingombranti cavi, impossibilità di passare velocemente da una ripresa elettronica in studio a un “inserto” in esterni, solitamente realizzato con tecnica cinematografica (16mm. o 35mm.), costruzione delle riprese e montaggio a priori per lunghe sequenze o tempi o atti teatrali eccetera.

Come cercavo di prendere il largo dalla felice ma ingessata formula dello “sceneggiato”? Anzitutto, per quanto possibile e praticabile, cercando di “muovere” le mie telecamere per ottenere una ricchezza di “campi” e movimenti, suggeritimi dalle mia “educazione” cinematografica, preferendo non di rado riprese dal basso, ricorrendo addirittura a una relativamente piccola telecamera mobile – mi pare si chiamasse Ikegami – peraltro odiata da molti cameramen, abituati alla sicura e riposante routine dello studio. Poi moltiplicando gli inserti filmati, realizzati in 16 mm, talora usando la cinepresa “a mano” o “a spalla”, dalla solida e affidabile Arriflex alla nuova e un po’ capricciosa Eclair, particolarmente cara ai giovani registi francesi.

E alla fine il salto definitivo, rischioso quando ricco di prospettive: trascrivere tutto il materiale elettronico registrato su “vidigrafo” o transcriber, cioè su pellicola 16 mm, e su colonna magnetica separata. Così conquistavo la possibilità di provvedere successivamente – e personalmente - alla revisione e montaggio sia delle parti registrate già montate che del girato su pellicola, senza soluzione di continuità fra le due tecniche di partenza, in un unico coerente unicum narrativo. Una rivoluzione un po’ in odio ai cosiddetti “tecnici” che lamentavano la perdita di “definizione” del materiale. Osservazione forse legittima ma la “perdita” era peraltro ampiamente compensata dal ritmo del racconto, dalla sua efficacia come “spettacolo”, dalla possibilità tagliare gli inevitabili “tempi morti” e di incidere sulle inquadrature ma anche sulla  colonna sonora, su musica ed effetti, e così via.

Inaugurata questa soluzione tecnica ed espressiva – a iniziare, se ben ricordo dal mio Il muro - l’avrei seguita anche per i due lavori successivi, Le cinque giornate di Milano e l’Orfeo in paradiso. Mi risulta che anche alcuni fra i miei più spericolati colleghi d’avventure adottassero successivamente lo stesso procedimento, per esempio in alcune puntate del mio “Teatro-Inchiesta”, ma la nascita ufficiale del procedimento sarebbe stata poi attribuita ufficialmente a Michelangelo Antonioni che, al suo un po’ sofferto debutto televisivo, sarebbe riuscito a farsi trascrivere in Inghilterra le immagini su pellicola per farne effettuare poi un sommario montaggio (Il mistero di Oberwald): insomma l’inventore del cavallo!

Ma la tv stava cambiando. Il cinema, i suoi uomini, le sue maestranze tecniche, che sino ad allora avevano disprezzato la cosiddetta sorella minore, stavano scoprendone i pregi: vasta adesione di pubblico e soprattutto disponibilità di finanziamenti sicuri. Sarebbe iniziato l’assalto alla tv da parte delle produzioni cinematografiche, di serie A, di serie B  o di spericolati improvvisatori. Iniziava una nuova era, poi potenziata e sponsorizzata dal sorgere delle televisioni cosiddette commerciali.

Ma questa è un’altra storia.

 

10.

Tornando a me, ritenni che era giunto il momento - dove aver dato vita a tanti espedienti per fare delle mie cose dei prodotti di tipo cinematografico - di fare della tv con tecnica compiutamente cinematografica. Accanto ai faraonici e dispendiose appalti accaparrati dalle grandi Ditte esterne, la Rai aveva scoperto che piccole produzioni, a prezzi rigidamente calmierati, contrattati e bloccati, potevano ormai risultare più economiche rispetto a produzioni gestite direttamente nei suoi Studi e quindi rappresentare una comoda via d’uscita verso il novero degli impegni produttivi ormai fissati per legge.

E’ in questo clima e grazie a questa formula che nascono i miei film televisivi, realizzati tramite la società fondata assieme a mia moglie, primo fra tutti quella Ipotesi sulla scomparsa di un fisico atomico tratta da un soggetto di Sergio Amidei, Diego Fabbri e Mirko Tebaldi, riscritto da me dopo essere rimasto  a lungo abbandonato.

Al di là dei singoli temi e dei singoli risultati, mi sembra particolarmente importante sottolineare la novità della formula produttiva, il cui merito debbo condividere con mia moglie, Maria Grazia Giovanelli. Un sistema produttivo agile, funzionale, svincolato dalle gerarchie e liturgie del cinema e della televisione, che anticipava la pratica dei film-makers, ossia dei realizzatori-produttori, anche se la tecnologia di allora non facilitava certo il compito. Esperienza che le televisioni si sarebbero affrettate a cancellare, consapevoli che il contenimento e quindi l’abbattimento dei costi avrebbe potuto mettere in crisi nuove operazioni finanziarie e speculative.

Negli anni Settanta-Ottanta si facevano ancora film televisivi seguendo metodi cinematografici vecchio stampo, con la pleonastica suddivisione e moltiplicazione dei ruoli legati alle necessità di una tecnologia già desueta, con relativa levitazione dei tempi e dei costi. Mia moglie ed io adottammo un sistema diverso: troupe ridotta ma qualificata e… agguerrita; riprese realizzate quanto più possibile in location esterne, di solito concentrate in un territorio limitato, possibilmente fuori Roma. In questo, abbiamo preceduto di un paio di decenni l’istituzione delle varie Film Commission. Un metodo di lavoro, frutto della mia esperienza televisiva, che purtroppo non fece scuola. La levitazione, abilmente pilotata, dei prezzi portò alla eliminazione delle produzioni a basso costo come la mia, a favore delle fauci dei cinematografari tardivamente convertiti al nuovo medium.

Purtroppo devo constatare che, mentre il cinema si aggiorna nei modi e nelle tecnologie, i metodi odierni della produzione televisiva sono ancora quelli pleonastici di un cinema che, grazie alle nuove conquiste tecnologiche, dovrebbe essere ormai scomparso…

 

11.

Un’altra esperienza sulla quale vorrei richiamare l’attenzione del solerte lettore riguarda l’operazione Fausto di Marlowe, un modo nuovo di concepire e realizzare un testo teatrale per la tv. Sino a quel momento, la cosiddetta “prosa televisiva” correva lungo due direttrici. Prima direttrice: la ripresa di uno spettacolo di prosa dal teatro in cui era stato allestito, in ripresa diretta o più spesso differita, usando due o tre telecamere. Metodo valido per documentare gli exploit di grandi attori e registi, ma legnoso e scarsamente fruibile come affascinante proposta televisiva. Un po’ come fare la foto animata di un evento. Seconda direttrice: l’adattamento in “studio” di un testo teatrale, adottando un tipo di recitazione un po’ più destrutturata e l’articolazione in due o più ambienti. Insomma: una spruzzata di sana tv sul testo di teatro.

Per Il Fausto di Marlowe  ho adottato un sistema del tutto diverso: proposta integrale del testo nella traduzione moderna di J. Rodolfo Wilcock, ambientazione in location “dal vero” ma sostanzialmente in un contesto unitario: la cripta e la chiesa di San Vincenzo al Furlo, i paesaggi e gli ambienti di Piobbico e Urbania. Il tutto filmato in presa diretta, avendo cura di non frantumare ogni singola scena in una serie di brevi inquadrature, per favorire in tal modo la concentrazione e la resa degli attori.

Inoltre, avevo cercato di tradurre l’immaginario elisabettiano in un immaginario italiano: streghe al posto dei maghi, folletti e sparizioni a vista, Mamuthones in luogo dei diavoli. Insomma: un grottesco tra farsa e tragedia. Indici di ascolto e gradimento alle stelle. Era l’indicazione di un nuovo stile (o di un nuovo format?) per fare teatro in tv? Ma non ebbe seguito. Il “teatro in tv” sarebbe scomparso per poi rifiorire in canali specialistici con la piatta o meno piatta registrazione di esperienze già collaudate, quasi una pubblica gratificazione più che uno spettacolo per potenziali fruitori,

 

Ma - come avrebbe detto il buon Corrado Mantoni – “non finisce qui”. Fra i peccati che mi sono stati imputati c’è quello di essermi occupato di troppi generi diversi.

Credo di avere saggiato e sperimentato, sempre con intenti innovativi, le più svariate formule di racconto televisivo: dalla rubrica, al programma didascalico a quello musicale, all’intervista di strada, al programma seriale, allo sceneggiato e altro ancora. Perché a sedurmi è stata ogni volta la possibilità di saggiare e mettere in pratica nuovi modi ed esperimenti di linguaggio. 

In definitiva, potrei qualificarmi un antesignano della continua commistione o ibridazione fra generi diversi – sceneggiati e telefilm, documentari e inchieste, interviste, dibattiti – senza trascurare rubriche per la cosiddetta “telescuola”, servizi non accreditati per la tv regionale lucana, programmi pomeridiani per ragazzi, e così via. E da ultimo la meta-televisione, cioè la mia tv utilizzata come materiale per una nuova verifica e rivisitazione a distanza: La bomba prima e dopo.

La mia predilezione per la tv come nuova esaustiva e feconda possibilità di linguaggio perderà progressivamente terreno negli anni della neotv e della tv commerciale in cui ho assistito a uno spento rifiorire dei generi standard nonché “globalizzati”, quali la fiction, il talk show, l’inchiesta con interviste, i commenti di brani filmati citati e riproposti dallo studio. Mentre l’innovazione passerà ai cosiddetti “format”, formule a scatola chiusa coperte da copyright fondamentalmente iterativi e monotoni.

E dovrei passare ad enumerare i miei difetti o, se volete, i miei limiti. Che forse sono l’altra faccia dei miei pregi. Mio merito – o forse difetto – non avere mai voluto ricoprire, rincorrere o cercare la figura-stampella del conduttore o “mediatore in campo”, spesso rivelatasi  – absit iniura verbis e fatte le debite eccezioni - un mezzo per promuovere funzionari e giornalisti al ruolo e al relativo prestigio di indispensabili comunicatori, per renderli indispensabili e insostituibili, e accrescerne “il potere”. A suo tempo il buon Gennarini mi aveva insegnato come l’autore dovesse mettersi sempre tra parentesi, ossia fuori campo, evitando sciocche e inutili esibizioni personali. Errore: il personaggio sarebbe divenuto il “testimonial” insostituibile di quasi ogni tipo di telespettacolo, facendo inutile e pleonastico “spettacolo di sé”. Sarebbero divenute virali le passeggiate del cosiddetto conduttore-recitante – magari a memoria o, come si diceva a scuola, “a pappagallo”– fra i luoghi della storia o della bellezza.

Non ho mai curato la promozione di me stesso anche se – modestia a parte – forse ne avrei avuto tutti i numeri. Ho cercato invece che le cose, i fatti, il linguaggio delle immagini e delle parole parlassero da soli e fossero in grado di catturare lo spettatore in virtù della loro chiarezza, incisività, aggressività forse. Linguaggio delle parole e dell’interesse, insomma: non passerella dell’autore.

 

12.

La storia è lunga, ma l’essenziale credo di averlo già detto. E poi ci sono le mie incursioni nel cinema, nello sceneggiato radiofonico, nello spettacolo musicale. E poi la partecipazione ad un lungo seriale, i miei contributi teorici alla massmediologia, la mia opera di docente, i miei conati di scrittura…

Certo non sarò ricordato come un pioniere, all’altezza di quelli che la tv, sia quella cosiddetta pubblica che quelle commerciali, quotidianamente ammanniscono riproponendo presenze e meriti creativi, da Renzo Arbore alle sorelle Kessler, ma il mio deciso, fattivo e… insostituibile contributo al linguaggio televisivo credo di averlo dato. Servano questi sommari appunti a qualche volenteroso futuro saggista e, perché no, a qualche operatore della tv desideroso di sapere da dove spuntino certe acquisizioni poi divenute terreno comune. 

Se e quando si scriverà una “vera” storia della televisione – ovvero mai –, forse il mio apporto sarà seriamente rivisto e valutato.

Per il momento, dobbiamo accontentarci del mio saggio già citato sulla rivista “Il Veltro”, di un mio libriccino edito da Studium nel 1995 e poi di nuovo nel 2002, La tv dall’anno zero, oppure del mio volumetto Il pianeta tv (Caravaggio editore, 2017), con una bella prefazione dell’ottimo autore ed amico Giancarlo Governi. O magari si può ricorrere alle mie dispense per i corsi universitari di “Teoria e  tecniche della Televisione”. E a chi non bastassero può ricorrere alle mie considerazioni da “teleterrorista” condensate nel pamphlet Te la do io la tv, (Scipioni ed., 2006) o, in extremis, al mio romanzetto di pura verosimile fantascienza, Lo zolfo ,il fuoco e la TV (WritersEditor, 2022).

 

(Fano, 18 gennaio 2023)