”Quartetto
vecchie glorie”: così li aveva battezzati il manager che si era assunto l’onere
se non di rilanciarli, almeno di farli esibire in qualche serata, naturalmente
a prezzi stracciati. Sempre meglio che niente.
Franca,
la stella della Radio anni Cinquanta, era passata indenne attraverso due
matrimoni e un paio di convivenze “more uxorio” come si diceva ai suoi tempi.
Grazie alla pensione dell’Enpals non se la passava malissimo ma neanche troppo
bene. Per le nuove auspicabili serate aveva fatto rinfrescare e aggiustare
dalla sartina del quartiere uno degli abiti dei giorni di gloria, lo stesso che
aveva indossato quando si era piazzata prima a Sanremo, sbaragliando le
concorrenti, e poi alla tv, nel revival per il trentennale della sua vittoria.
Giacomo
detto Jacko faceva il barista al paese natale, in un localuccio interamente
tappezzato con le foto dei suoi passati trionfi. Alla sua età, in America,
Frank Sinatra e Dean Martin erano stati ancora sulla cresta dell’onda ma, si
sa, l’Italia non è l’America. Conservava, a ricordo del glorioso passato, il
prepotente ciuffo alla Elvis a cui non aveva mai saputo rinunciare, ravvivato
dal ferro per capelli e reso corvino da apposita tintura. Con in mano la
chitarra, che non aveva mai imparato a suonare, faceva ancora la sua figura,
anche se doveva andarci piano con quel movimento sussultorio di anca e bacino -
che continuavano a richiedergli - per non risvegliare la sciatica dormiente.
Intorno
a loro – i veri big del quartetto – ruotavano gli altri due: un romagnolo,
caciarone e battutista, che aveva cantato una sola volta e una sola canzone a
Castrocaro nella sezione giovani di quarant’anni prima ma era sempre reperibile
in loco e quindi aggregabile con poca spesa, nonché un napoletano planato da
Fuorigrotta dove si era esibito come “ ’o malamente” nelle sceneggiate.
Il
manager che si era inventato il quartetto, con un trascorso di fisarmonicista,
agente immobiliare e autista di pullman turistici, riusciva a piazzarli in
qualche festa locale, sporadiche esibizioni in ritrovi e sale da ballo
riservate agli anziani, “ospitate” nelle emittenti televisive di serie C…
Arrivavano
sul posto a bordo di una multipla guidata da Carlino il manager, non senza aver
consumato antecedentemente un rapido spuntino a base di tramezzini. Per
rifocillarsi alla grande confidavano nell’ospitalità del gestore a fine
spettacolo, che invece, il più delle volte, costretto a subirli per una serata
di stanca, non vedeva l’ora di liberarsi dei quattro sopravvissuti. Nei locali
più giù, dove non c’era l’orchestra e neppure uno straccio di tastierista, i
“quattro big” ricorrevano al playback esibendosi spudoratamente con il supporto
di registrazioni vecchie di trent’anni e oltre. E gli sprovveduti avventori
cascavano nell’equivoco: ma guarda un po’! Quei quattro anzianotti non avevano
perduto neppure un filo di voce, sempre quella, arrangiamento d’orchestra
compreso. Miracolo!
C’erano
anche loro nella Rimini estiva delle cento spiagge, Bellariva, Marebello,
Rivazzurra, senza soluzione di continuità sino a Riccione. “Allacciamoci nel
tango”, cantava il napoletano dallo sguardo truce. E gli altri due uomini
accoglievano fra le braccia, in un comico caschè, le poderose terga della
cantante: Olè!
La
grande festa di fine estate, organizzata da Comune, Pro-loco, Associazioni e
Sponsor vari, si svolge nel grande piazzale intitolato al riminese Federico
Fellini, il regista che ha saputo esportare nel mondo quell’allegria tinta di
malinconia, quell’umorismo grassoccio e insieme coinvolgente tipico della gente
di Romagna.
Sul
palco, prima del vero clou, il più atteso, costituito dall’esibizione
dell’orchestra di Giò Caramelli, che avrebbe coinvolto e stravolto locali e
forestieri, stanziali e turisti nel grande valzer collettivo, sfilavano vedette
di seconda categoria, smargiassi complessini rock, un arruffato rapper
nostrano, più ermetico e indecifrabile dei colleghi d’oltre oceano, e
soprattutto imitatori che riproponevano gli sculettamenti del Celentano
preistorico o la voce nasale di Ramazzotti o il farfugliamento rabbioso di
Beppe Grillo.
In
bella posizione, il quartetto “Vecchie glorie” faceva vibrare di commozione i
più anziani e scatenava sorprendenti confronti. Hai visto come è ridotta la
Franca? E pensare che ha tre anni meno di me. Ma già, con quella vita! E Jacko,
sempre bell’uomo, solo che ha esagerato con la tintura, due sopracciglia alla
Mefisto! Biavati è sempre lui, simpatico e sfiatato, tira fuori più voce quando
vende la frutta a Lugo, al mercato. E quel terrone cosa ci sta a fare in mezzo
a quegli altri, chi l’ha mai visto?…
Al
quartetto “Vecchie glorie” si alternavano, in un gioco un po’ perverso, le
esibizioni della Musica Arabita, cioè arrabbiata, venuta dalla città di Fano:
strumenti bizzarri ricavati da vecchi bidoni di vernice o da latte di pomodoro,
violini di legno con dischetti metallici da far sfrigolare, ciucciotti da
infante in funzione di kazoo, putitù e caccavelle fatte in casa. E un’allegria
travolgente nell’eseguire vecchi motivi orecchiabili a tempo di marcetta e di
valzerone.
Negli
stand tutto attorno al piazzale un drappello di rubiconde arzdore ammanniva
piadine e alcuni omoni baffuti, cappello e capparella “stile Passatore”,
mescevano sangiovese offerto dall’organizzazione. E mentre Franca, alternandosi
con l’Arabita alla ribalta, ripeteva il suo invito ad allacciarsi nel tango e
l’Elvis nostrano agitava ciuffo e chitarra, il popolo si divideva fra
un’attenzione distratta alle attrazioni musicali e la ressa per ottenere il
dovuto omaggio enologico-gastronomico.
Poi
il “quartetto” e la banda fanese avrebbero ceduto il palco ai tecnici della
grande Orchestra già in procinto di stendere cavi e microfoni.
L’atmosfera
scombinata, caotica, spossante della grande festa di fine estate. Orchestre
strampalate, stand gastronomici, esibizione di vecchie glorie canore, bambini
con la nausea per i troppi gelati, palloncini che volano in cielo, ragazze
accaldate, donnone dai piedi doloranti, gente del luogo e turisti stranieri
omologati dal desiderio di ridere e divertirsi.
A
fine festa non trovarono più il manager ad aspettarli col pulmino. Lo attesero
con impazienza, stanchi e stremati dopo una serata particolarmente impegnativa.
Non c’era più l’età per questi tour de force.
Ne
ebbero la conferma dal gestore della grande festa: il loro manager se n’era già
andato almeno da un’ora, appena ricevuto il saldo della serata. Scappato sul trabiccolo
con i loro soldi, non solo quelli della festa ma dell’intera tournée, sempre
trattenuti nell’attesa di “fare i conti tutti insieme e per benino”. Come
avevano fatto a fidarsi? Tanto ingenui alla loro età? E sì che ne avevano già
viste di cotte e di crude nella vita.
Il
romagnolo fu il primo a prendere congedo. Io, sai che vi dico? Me ne torno a
Lugo, tanto una macchina che mi dà un passaggio fino casa la trovo. Gli altri
tre si avviarono con i piedi doloranti verso la stazione ferroviaria. Lungo il
cammino si fermarono a un forno appena aperto per farsi un maritozzo con sopra
la glassa. E si distesero esausti sulle panchine della sala d’aspetto, dopo
aver consultato il tabellone per controllare l’orario delle partenze. Per il
treno di Franca mancava solo un’ora, gli altri due avrebbero dovuto attendere
il mattino dopo.
Accompagnarono
la loro “diva” sino al binario. Abbracci e baci su entrambe le gote sudaticce.
A Jacko la tinta era ceduta per il caldo e un filo come di nerofumo gli aveva
imbrattato le occhiaie, tipo scettico blu. E il napoletano, più che un
“malamente” sembrava un pezzente, serrato in un insondabile mutismo.
Ci
proveremo ancora? Meglio di no, a che serve? Non ti sei accorto che la gente
non ci ama più? Ama i propri ricordi e noi rischiamo addirittura di
distruggerli. Facciamo danno. Non vedo l’ora di rivedere i miei nipotini. Sai,
ne ho due. Carini da morire. A Pierino gli ho regalato una chitarrina. E tu?
Sono sola, ma ho delle buone amiche. Giochiamo a burraco tutti i sabati. Allora
ciao, però è stato bello.
(Leandro Castellani)