mercoledì 8 febbraio 2017

VECCHIE GLORIE




”Quartetto vecchie glorie”: così li aveva battezzati il manager che si era assunto l’onere se non di rilanciarli, almeno di farli esibire in qualche serata, naturalmente a prezzi stracciati. Sempre meglio che niente.
Franca, la stella della Radio anni Cinquanta, era passata indenne attraverso due matrimoni e un paio di convivenze “more uxorio” come si diceva ai suoi tempi. Grazie alla pensione dell’Enpals non se la passava malissimo ma neanche troppo bene. Per le nuove auspicabili serate aveva fatto rinfrescare e aggiustare dalla sartina del quartiere uno degli abiti dei giorni di gloria, lo stesso che aveva indossato quando si era piazzata prima a Sanremo, sbaragliando le concorrenti, e poi alla tv, nel revival per il trentennale della sua vittoria.
Giacomo detto Jacko faceva il barista al paese natale, in un localuccio interamente tappezzato con le foto dei suoi passati trionfi. Alla sua età, in America, Frank Sinatra e Dean Martin erano stati ancora sulla cresta dell’onda ma, si sa, l’Italia non è l’America. Conservava, a ricordo del glorioso passato, il prepotente ciuffo alla Elvis a cui non aveva mai saputo rinunciare, ravvivato dal ferro per capelli e reso corvino da apposita tintura. Con in mano la chitarra, che non aveva mai imparato a suonare, faceva ancora la sua figura, anche se doveva andarci piano con quel movimento sussultorio di anca e bacino - che continuavano a richiedergli - per non risvegliare la sciatica dormiente.
Intorno a loro – i veri big del quartetto – ruotavano gli altri due: un romagnolo, caciarone e battutista, che aveva cantato una sola volta e una sola canzone a Castrocaro nella sezione giovani di quarant’anni prima ma era sempre reperibile in loco e quindi aggregabile con poca spesa, nonché un napoletano planato da Fuorigrotta dove si era esibito come “ ’o malamente” nelle sceneggiate.
Il manager che si era inventato il quartetto, con un trascorso di fisarmonicista, agente immobiliare e autista di pullman turistici, riusciva a piazzarli in qualche festa locale, sporadiche esibizioni in ritrovi e sale da ballo riservate agli anziani, “ospitate” nelle emittenti televisive di serie C…
Arrivavano sul posto a bordo di una multipla guidata da Carlino il manager, non senza aver consumato antecedentemente un rapido spuntino a base di tramezzini. Per rifocillarsi alla grande confidavano nell’ospitalità del gestore a fine spettacolo, che invece, il più delle volte, costretto a subirli per una serata di stanca, non vedeva l’ora di liberarsi dei quattro sopravvissuti. Nei locali più giù, dove non c’era l’orchestra e neppure uno straccio di tastierista, i “quattro big” ricorrevano al playback esibendosi spudoratamente con il supporto di registrazioni vecchie di trent’anni e oltre. E gli sprovveduti avventori cascavano nell’equivoco: ma guarda un po’! Quei quattro anzianotti non avevano perduto neppure un filo di voce, sempre quella, arrangiamento d’orchestra compreso. Miracolo!
C’erano anche loro nella Rimini estiva delle cento spiagge, Bellariva, Marebello, Rivazzurra, senza soluzione di continuità sino a Riccione. “Allacciamoci nel tango”, cantava il napoletano dallo sguardo truce. E gli altri due uomini accoglievano fra le braccia, in un comico caschè, le poderose terga della cantante: Olè!

La grande festa di fine estate, organizzata da Comune, Pro-loco, Associazioni e Sponsor vari, si svolge nel grande piazzale intitolato al riminese Federico Fellini, il regista che ha saputo esportare nel mondo quell’allegria tinta di malinconia, quell’umorismo grassoccio e insieme coinvolgente tipico della gente di Romagna.
Sul palco, prima del vero clou, il più atteso, costituito dall’esibizione dell’orchestra di Giò Caramelli, che avrebbe coinvolto e stravolto locali e forestieri, stanziali e turisti nel grande valzer collettivo, sfilavano vedette di seconda categoria, smargiassi complessini rock, un arruffato rapper nostrano, più ermetico e indecifrabile dei colleghi d’oltre oceano, e soprattutto imitatori che riproponevano gli sculettamenti del Celentano preistorico o la voce nasale di Ramazzotti o il farfugliamento rabbioso di Beppe Grillo.
In bella posizione, il quartetto “Vecchie glorie” faceva vibrare di commozione i più anziani e scatenava sorprendenti confronti. Hai visto come è ridotta la Franca? E pensare che ha tre anni meno di me. Ma già, con quella vita! E Jacko, sempre bell’uomo, solo che ha esagerato con la tintura, due sopracciglia alla Mefisto! Biavati è sempre lui, simpatico e sfiatato, tira fuori più voce quando vende la frutta a Lugo, al mercato. E quel terrone cosa ci sta a fare in mezzo a quegli altri, chi l’ha mai visto?…
Al quartetto “Vecchie glorie” si alternavano, in un gioco un po’ perverso, le esibizioni della Musica Arabita, cioè arrabbiata, venuta dalla città di Fano: strumenti bizzarri ricavati da vecchi bidoni di vernice o da latte di pomodoro, violini di legno con dischetti metallici da far sfrigolare, ciucciotti da infante in funzione di kazoo, putitù e caccavelle fatte in casa. E un’allegria travolgente nell’eseguire vecchi motivi orecchiabili a tempo di marcetta e di valzerone. 
Negli stand tutto attorno al piazzale un drappello di rubiconde arzdore ammanniva piadine e alcuni omoni baffuti, cappello e capparella “stile Passatore”, mescevano sangiovese offerto dall’organizzazione. E mentre Franca, alternandosi con l’Arabita alla ribalta, ripeteva il suo invito ad allacciarsi nel tango e l’Elvis nostrano agitava ciuffo e chitarra, il popolo si divideva fra un’attenzione distratta alle attrazioni musicali e la ressa per ottenere il dovuto omaggio enologico-gastronomico.
Poi il “quartetto” e la banda fanese avrebbero ceduto il palco ai tecnici della grande Orchestra già in procinto di stendere cavi e microfoni.
L’atmosfera scombinata, caotica, spossante della grande festa di fine estate. Orchestre strampalate, stand gastronomici, esibizione di vecchie glorie canore, bambini con la nausea per i troppi gelati, palloncini che volano in cielo, ragazze accaldate, donnone dai piedi doloranti, gente del luogo e turisti stranieri omologati dal desiderio di ridere e divertirsi.

A fine festa non trovarono più il manager ad aspettarli col pulmino. Lo attesero con impazienza, stanchi e stremati dopo una serata particolarmente impegnativa. Non c’era più l’età per questi tour de force.
Ne ebbero la conferma dal gestore della grande festa: il loro manager se n’era già andato almeno da un’ora, appena ricevuto il saldo della serata. Scappato sul trabiccolo con i loro soldi, non solo quelli della festa ma dell’intera tournée, sempre trattenuti nell’attesa di “fare i conti tutti insieme e per benino”. Come avevano fatto a fidarsi? Tanto ingenui alla loro età? E sì che ne avevano già viste di cotte e di crude nella vita.
Il romagnolo fu il primo a prendere congedo. Io, sai che vi dico? Me ne torno a Lugo, tanto una macchina che mi dà un passaggio fino casa la trovo. Gli altri tre si avviarono con i piedi doloranti verso la stazione ferroviaria. Lungo il cammino si fermarono a un forno appena aperto per farsi un maritozzo con sopra la glassa. E si distesero esausti sulle panchine della sala d’aspetto, dopo aver consultato il tabellone per controllare l’orario delle partenze. Per il treno di Franca mancava solo un’ora, gli altri due avrebbero dovuto attendere il mattino dopo.
Accompagnarono la loro “diva” sino al binario. Abbracci e baci su entrambe le gote sudaticce. A Jacko la tinta era ceduta per il caldo e un filo come di nerofumo gli aveva imbrattato le occhiaie, tipo scettico blu. E il napoletano, più che un “malamente” sembrava un pezzente, serrato in un insondabile mutismo.
Ci proveremo ancora? Meglio di no, a che serve? Non ti sei accorto che la gente non ci ama più? Ama i propri ricordi e noi rischiamo addirittura di distruggerli. Facciamo danno. Non vedo l’ora di rivedere i miei nipotini. Sai, ne ho due. Carini da morire. A Pierino gli ho regalato una chitarrina. E tu? Sono sola, ma ho delle buone amiche. Giochiamo a burraco tutti i sabati. Allora ciao, però è stato bello.     

(Leandro Castellani)




lunedì 6 febbraio 2017

L'ALBUM DELLE FOTO


 
Come ogni volta. Quando era giù di morale, le cose non quagliavano, insomma non c’era solo da aspettare che cambiasse il vento, ricorreva all’album delle foto. Un album delle foto all’antica con la copertina di finta pelle, le pagine cartonate, alto come una Bibbia di quelle vetuste che si vedono nei film sui colonizzatori americani: le cosiddette bibbie di famiglia, mai lette per intero ma con l’albero genealogico in calce aggiornato via via nel corso delle generazioni.
Il suo album no, era un semplice vecchio album di foto in cui la madre aveva raccolto le immagini della sua vita, cominciando dalla prima, a poche ore dalla nascita con il volto rossastro. Ma già, il rossastro più che vedersi s’intuiva, dato che le foto erano in bianco e nero, e tali sarebbero rimaste per molte pagine successive, sino a quelle del matrimonio, una trentina d’anni più tardi. Sfogliare quelle vecchie foto gli faceva bene, almeno di solito era così, era come riannodare i fili slabbrati della sua esistenza, cercarvi un senso, una direzione. Lui appena nato fra le braccia di mamma, e poi un anno o due più tardi completamente nudo, culetto al vento, disteso su una pelle di leopardo o di leone, o di scimmia. Lui fra zii e parenti vari il giorno della cresima, con un nastro bianco a cingergli la fronte. Poi da scolaretto con il grembiulino nero, la cravatta a fiocco e una voluminosa cartella di finto cuoio sotto il braccio.
E poi. Qui si arrestò. Dalla pagina era scivolata una foto non inserita nell’apposito risguardo: un gruppo di ragazzetti, forse quindicenni o sedicenni. Difficile capire l’anno e l’età esatta. Calzoni alla zuava, camicia aperta sul collo e ciuffo ribelle. Li riconosceva tutti, i compagni di scuola alle Commerciali.
Ma dietro al gruppo, spuntava un signore che lì per lì non ricordava di aver mai conosciuto: alto, con tutta la testa oltre le teste dei ragazzi, capelli ben pettinati divisi a metà da una scriminatura tanto perfetta da sembrare tirata col righello, un paio di baffetti come quelli di Clark Gable in Via col vento, ma una espressione ben diversa da quella del divo hollywoodiano: tutt’altro che sorridente e beffarda, anzi più che seria, severa, aggrondata, quasi truce. Chi era quel tipo? Un professore? Un bidello in alta uniforme? Un genitore? Non riusciva a riconoscerlo, a identificarlo, anzi quell’intrusione gli sembrava una nota stonata in quell’allegro consesso giovanile. Eppure l’intruso doveva averci qualcosa a che fare con lui. A guardar la foto con maggior attenzione si accorgeva che quel figuro sconosciuto aveva insinuato una mano fra il malloppo compatto dei ragazzi per appoggiarla proprio sulla sua spalla. E dunque?
Chiuse l’album con un senso di fastidio, quasi con dispetto: stavolta la funzione rasserenatrice non aveva funzionato.
Doveva pensarci su. Una notte di sonni inquieti ma al mattino, come spesso accade, i ricordi si erano sbrogliati e la soluzione gli si presentava nitida: suo zio Gustavo! Non proprio uno zio, una specie di prozio remoto, un parente un po’ alla lontana, che un bel giorno aveva preso congedo dalla famiglia per emigrare in America: Argentina? Brasile? Stati Uniti? A quel tempo l’America era l’America, senza tante distinzioni territoriali. Si va in America a far fortuna. L’aveva poi fatta la fortuna? Era rimasto là e, dopo la necessaria gavetta, era diventato padrone di una fazenda in Brasile o di una succursale di automobili a Detroit? Perché non ne aveva saputo più niente? E sì che da allora erano passati almeno trent’anni e quella mano poggiata sulla sua spalla stava a significare che lo zio Gustavo a quel nipote italiano ci teneva proprio. 
Un vecchio contadino che aveva conosciuto da ragazzo gli aveva raccontato la propria avventura d’emigrante. In America - diceva – è tutto speciale che neanche te lo immagini. Pensa che c’è una grande macchina per fare a meno dei norcini: da una parte entra un maiale appena ucciso e dall’altro, molti metri più in là, escono le salsicce. A lui però lo avevano rispedito in Italia, e povero come quando era arrivato.
E lo zio Gustavo? Si era naturalizzato cittadino americano, o brasiliano, o argentino, oppure era tornato sconfitto anche lui, con solo i soldi per pagarsi il biglietto sino a casa? Perché non ne aveva saputo più nulla e nessuno si era premurato d’informarlo sulla sorte del congiunto?  Valeva la pena di andare a fondo,  indagare presso qualche parente prossimo o remoto. Magari Gustavo nel frattempo era morto, ricco sfondato, e i suoi possedimenti erano in attesa di erede. Quale migliore erede di lui, il prediletto, come quella mano poggiata sulla spalla stava a dimostrare? Passò qualche giorno in uno stato di ebbrezza, sia pure provvisoria. Forse gli sarebbe convenuto trasferirsi in America per amministrare saggiamente le proprietà? O forse sarebbe stato meglio vendere tutto, disfarsene, e goderseli qui in patria quei benedetti quattrini. Pesos, pesetas, dollari? Decise d’intraprendere le ricerche presso il Consolato. Ma quale? Americano, brasiliano, argentino? Oppure il Venezuela, Perché aveva trascurato il Venezuela fra le sue ipotesi? E sì che di emigrati italiani ce n’erano anche là.

Intanto si mise alla ricerca di un parente, possibilmente in età molto avanzata, che potesse fornirgli ulteriori informazioni sull’emigrante. Trovò un cugino di sua nonna, novantenne, ospitato in una casa di riposo, e gli presentò la fotografia. Il vecchietto la esplorò facendo forza alla sua doppia cateratta. Più che vederlo se lo fece descrivere: capelli divisi a metà, baffetti alla Clark Gable. Lo interruppe: sei sicuro che non fossero baffetti alla Menjou? Lo mise in imbarazzo. Lui non sapeva neppure chi fosse questo Menjou. Abbozzò: sì, potrebbe essere. E il vecchietto: Ma allora non è Gustavo, è Alfonso, quel poveraccio che ha venduto casa e cavallo per comprarsi il biglietto. Gli avevano proposto una bella situazione in Cile. In Cile? Sì, in Cile, c’era da mettersi nel mercato della mescalina. La mescachè? Sì, una specie di fungo per fare le sigarette e pure le frittate. E che gli successe? Lo misero in prigione perché  il traffico non era legale. E poi? E poi non se ne seppe più nulla. A quest’ora sarà morto, laggiù le carceri non perdonano.
Finito il sogno del parente che aveva fatto fortuna in America. Oppure no? Alfonso o Gustavo? Baffi alla Clark Gable o baffi alla Menjou. E se quel povero vecchietto male in arnese e con la doppia cataratta si fosse sbagliato? Restò con il dubbio: un giorno o l’altro sarebbe andato a fondo della cosa. Non poteva trascurare quella fazenda brasiliana o quell’agenzia di Detroit in attesa di proprietario…  
(Leandro Castellani)