Assente
dal paese per più di una decina d’anni, il filosofo Ernst Cassirer, rimettendo piede in Germania,
fece una mirabolante scoperta: dopo l’uragano del nazismo non era più in grado
di capire la sua lingua tedesca, le parole avevano assunto un significato
totalmente diverso da quello originario.
Credo
che in Italia, da quarant’anni a questa parte, sia successa un po’ la stessa
cosa. Ecco, faccio conto di essere rimasto assente per il corso di una
generazione, facciamo due, e guardate un po’ cosa mi ritrovo.
“Compagno”:
negli anni Cinquanta era il termine usato per definirsi fra loro dai militanti
comunisti, quelli cantati da Guareschi nel suo “Don Camillo” o ironizzati dal
medesimo nelle vignette dei “trinariciuti”. Comunista: un militante leale e combattivo,
di schietta fede marxista-leninista, formato sui sacri testi, tipo il Capitale
e il Manifesto, o sulle più agevoli ma puntuali volgarizzazioni del “Calendario
del popolo”, frequentatore di cellule e sezioni, distributore di volantini o di
birra e salsicce alle feste dell’Unità, vetero-comunista anteguerra o neo-comunista
post-resistenziale. Spesso individuabile anche dal modo di vestire: bandite
giacca e cravatta a favore di maglioni in lana ruvida, capelli riccioluti ma
corti sulla nuca, sfumatura alta e fede sincera in quell’idilliaco socialismo
reale praticato nell’Unione Sovietica all’ombra di un papà bonario e dai baffi
rassicuranti che si chiamava Giuseppe Stalin, Baffone per i nemici, in aperta e
fiera competizione con gli incravattati e profumati democristiani, baciapile e
forchettoni un po’ calvi o con la chioma ben ravviata. Ma le differenze
poltico-ideologiche fra bianchi e rossi non ne mettevano in discussione la reciproca
dignità personale, talvolta l’amicizia. Civilmente e umanamente comunisti,
democristiani o genericamente disimpegnati potevano essere amici fra loro,
anche fraterni. Un po’ più settarie le sporadiche rappresentanti del gentil
sesso, divise equamente fra rubiconde massaie e vigorose pasionarie, propense a
snobbare le signore aristocratiche nonché le conventucole borghesi fuori o
dentro le chiese.
Oggi
i termini “compagno” e “compagna” hanno un significato ben diverso: identificano
tutte quelle coppie che un tempo si sarebbero dette di “concubini”, cioè le conviventi
o i conviventi che hanno deciso per necessità o per scelta ideologico-pratica
di non consolidare il loro legame mediante matrimonio, civile o religioso che
sia. A tal punto la vecchia accezione è divenuta desueta che anche gli uomini sposati
e le donne coniugate preferiscono usare in pubblico i termini di compagni e
compagne piuttosto che di mariti e mogli. Fa più fino, à la page per dirla in
francese. Il termine “compagni” si estende poi anche a conviventi – o concubini
– dello stesso sesso, ma queste ultime o questi ultimi smaniosi il più delle
volte, al contrario dei primi, di sancire la loro unione con nozze più o meno
regolari nel corso delle quali esibire abiti bianchi, bouquets, confetti e
lancio di riso non integrale, con successivo festino e bomboniere.
La
vecchia accezione è ormai desueta: non di rado i discendenti prossimi o remoti
di quello che fu un tempo il comunismo oggi si sono borghesizzati e incravattati,
hanno i cappelli fluenti sulla nuca, quando non appartengono alla cosiddetta variante
“radical chic”: tolleranti con i simili e intolleranti al massimo verso tutti
gli altri, con ostentati atteggiamenti di superiorità sino all’ostracismo verso
i non allineati, i devianti ideologici, e così via. Non più compagni ma disamorati e insofferenti “amici”.
(da "Parole" di R.M.Ciacosa)
(da "Parole" di R.M.Ciacosa)